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Te la do io la reclame: gioco e pubblicità, la parola ai sociologi

10 gennaio 2015 - 10:43

Gli spot sulla pubblicità del gioco costituiscono un nuovo oggetto di attenzione anche per la sociologia della comunicazione. Ne parliamo con Alberto Abruzzese, sociologo e saggista già preside della facoltà di sociologia dell'Università La Sapienza di Roma, e Luigi Caramiello, professore dell'Università di Napoli Federico II.

Scritto da Francesca Mancosu
Te la do io la reclame: gioco e pubblicità, la parola ai sociologi

"Proprio chi ama il gioco, quale esso sia, dovrebbe accettare una regola fondamentale per un sistema di vita che si voglia mantenere 'aperto': difendere il proprio modo d’essere e la propria sopravvivenza per mezzo di una sorta di autoregolamentazione in gran parte affidata (almeno sino a quando non si creino picchi catastrofici o di ingovernabilità) al gioco delle parti in campo e in causa", esordisce Abruzzese. "Da un lato, sono dunque legittime le strategie di contenimento (leggi, comunicazione, persuasione culturale ecc.) sui rischi maggiori di dissipazione economica, civile e umana ingenerata dal gioco d’azzardo ma dall’altro lato va ritenuto legittimo il desiderio di giocare a proprio rischio sapendo che proprio per questo è un rischio da saper trattare con equilibrio. E che dunque sapersi contenere nel gioco proprio per continuare a giocare deve fare parte del gioco stesso". Il divieto di giocare, come quelli di consumare alcool e droghe, per il sociologo "non scoraggiano nessuno, se riescono su alcune percentuali di popolazione, funzionano comunque in modo parziale e creano sempre effetti disastrosi per la società, ben più gravi del male che si vorrebbe estirpare. Assai meglio se al posto delle politiche di assoluto divieto si ripiega su politiche di contenimento affidate alla comprensione e alla capacità di dialogo. Qui la comunicazione può fare molto a patto di scegliere le piattaforme giuste. La tradizione della pubblicità è spettacolare e dunque solo in qualche caso non autoritaria: quasi sempre è troppo monoculturale e interessata. Le piattaforme digitali potrebbero funzionare meglio. Per quanto concerne gli inviti alla responsabilità – è una regola generale e vale non solo nel campo del gioco – non possono mai funzionare se non sono basati sulla sensibilizzazione dei valori per i quali ci si dovrebbe sentire responsabili. Per creare persone responsabili bisogna lavorare sulla vocazione delle persone (e lavorando sulla vocazione non si può partire dal gioco d’azzardo pubblicizzato né arrivarci: bisogna aprire interi orizzonti emotivi in cui non tutto è razionale e conciliabile con le regole istituzionali, e in cui sempre sopravvive qualcosa di tragico e irriducibile)".

 

Ancora più dirette, se possibile, le posizioni del professore Luigi Caramiello. "È giusto che i comportamenti nocivi collettivi vadano disciplinati e che le istituzioni intervangano su certe sfere dell'agire sociale, ma per il gioco patologico la questione è particolarmente complessa: non è semplice individuare il confine che separa la legittimità del giocare, divertendosi, dalla patologia. Si può qualificare come una malattia la scelta di chi, magari dotato di ampie possibilità economiche, decide di spendere i suoi soldi alle scommesse o alle slot, con gioia? Non ha forse il diritto di fare ciò che vuole del proprio denaro? D'altro canto è sicuramente da stigmatizzare il comportamento di chi, fa lo stesso con reddito fisso e limitato, e con una famiglia da mantenere: in questi caso, le istituzioni devono intervenire e orientare i comportamenti dei singoli, che spesso però si sommano a condizioni di disagio preesistente. Ma, invece di promuovere iniziative per rilanciare l'occupazione, migliorare la qualità della vita, occuparsi dei trasporti o della sanità in genere, è più facile puntare il dito sul gioco e lavarsi la coscienza con inviti al gioco responsabile".Se lo Stato volesse veramente ragionare in termini etici, dice Caramiello, “dovrebbe eliminare le lotterie, e lasciare aperte solo le devoluzioni di tipo benefico. Questi spot in fondo sono solo un calmiere emotivo psicologico comportamentale, e non serve di certo vietarli per disciplinare i comportamenti dell'individuo".

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