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Gioco e pubblicità: toglietegli tutto, ma non la legalità

13 luglio 2015 - 10:03

Alla fine, ritorna il caos. Com’era prevedibile, la rinuncia del governo ad utilizzare lo strumento della Legge Delega per riformare il comparto del gioco pubblico – solo teoricamente imposta dal Parlamento - riporta il settore indietro di anni.

Scritto da Anna Maria Rengo
Gioco e pubblicità: toglietegli tutto, ma non la legalità

Senza prospettive, né aspettative. Sia in termini di sviluppo che di sostenibilità: di nuovo in preda a una serie di attacchi e strumentalizzazioni. Eppure, fino a ieri, nessuno sembrava davvero proibizionista. Salvo alcune eccezioni, di soggetti o organizzazioni dichiaratamente abolizionisti, in senso più generale sembrava prevalere la mediazione orientata alla tutela della legalità. Cioè quel semplicissimo principio secondo il quale, facendo sparire un’offerta di gioco legale dai territori, l’unica conseguenza possibile sarebbe quella di un’invasione generale di giochi illegali, tenendo conto della fortissima domanda sempre in voga nel nostro paese. E ancor più dopo gli ultimi quindici anni in cui - come le stesse organizzazioni che promuovono la scomparsa del gioco sostengono - si è “incentivata” questa propensione all’attività ricreativa, decisamente umana e particolarmente spiccata nella nostra cultura. Ma il problema è assai più profondo rispetto al semplice dibattito sulla dicotomia “gioco sì / gioco no”, declinata nella scelta tra gioco lecito o illecito. La questione è assai più complessa e meriterebbe qual pizzico di attenzione in più che si rende necessaria in tutte quelle riforme – compiute o mancate – che, come quella del gioco pubblico, hanno (avrebbero) effetto diretto sulla salute dei cittadini e sulla società più in generale.

 

Quando si parla di gioco, non ci stancheremo mai di ripeterlo, bisogna sempre tenere conto che non siamo all’anno zero. Come non lo eravamo agli arbori del Duemila quando il Legislatore intraprendeva il cammino della regolarizzazione di questo mercato che, tanto per la cronaca, non ha mai rappresentato una liberalizzazione (introducendo, al contrario, un regime di monopolio e una riserva di Stato), bensì di un’operazione di emersione di una economia enorme e fino a quel momento sommersa. Basterebbe consultare gli archivi parlamentari e quella vecchia Commissione di indagine sul mercato illegale dei giochi per scoprire che già prima del 2003 veniva stimata una spesa fino a 200 miliardi l’anno (di lire, evidentemente) da parte di giocatori italiani verso siti di gioco esteri e quindi illegali (e quindi, ancora, fuori da ogni controllo) ma esistevano soprattutto oltre 800mila ‘videopoker’: cioè apparecchi da intrattenimento anche questi illeciti che oltre a non generare alcun provento per il sistema paese, non garantivano alcuna certezza di vincita ai giocatori. Pur promettendo, e in qualche caso, offrendo pure, vincite di altissimo valore. Per un vero incentivo alle dipendenze e a un enorme pericolo diffuso sul territorio e in maniera assai più prepotente delle attuali new slot, tenendo conto che le slot dello Stato sono oggi meno della metà rispetto ai vecchi videopoker del 2003.
Se l’analisi storica è sufficiente a giustificare il passato (spiegando, appunto, come lo Stato non abbia ‘creato’ un’offerta di gioco, ma convertito un’economia illecita, portandola a livelli riconosciuti come sostenibili in termini di vincite e di puntata), quello che più ci preme è analizzare e comprendere la situazione presente. Per provare a immaginare un futuro davvero sostenibile.
Se nel 2003 dominava l’illecito, a oltre dieci anni di distanza continua ad esserci un’offerta illegale ancora eccessiva. Accompagnata da una rete di gioco non autorizzato, che passa per i Centri trasmissione dati che raccolgono scommesse senza concessione (e oggi senza neppure l’adesione alla sanatoria) e circoli che permettono di giocare al poker Texas Hold’em (attività nobile e, lo sappiamo bene, prevalentemente ludica o ‘sportiva’ nella maggioranza dei casi, ma puramente di azzardo in qualche altro) che, in barba a un’altra legge dello Stato, non è ancora stato disciplinato (altro tema di cui non si parla abbastanza). Senza contare, poi, le bische che continuano a mostrarsi su vari territori. Una realtà, questa, che sembra quasi scontata ma che non va affatto dimenticata. Sarebbe sufficiente una consapevolezza di questo tipo – messa peraltro nero su bianco dallo stesso governo, nella fase di definizione della Legge di stabilità per l’anno corrente, che proponeva la sanatoria del Ctd – per capire il rischio enorme a cui andrebbe incontro lo Stato introducendo un divieto assoluto di pubblicità del gioco. Mettendo da parte per un attimo ogni discorso industriale, di libertà di impresa e di rischi per le economie aziendali, e pensando soltanto al cittadino. La pubblicità è sì uno strumento di invito rivolto al consumatore e per questa ragione deve essere rigidamente regolamentata: ma mai impedita. Poiché è al contempo anche l’unico strumento in mano alle società concessionarie (e, quindi, dello Stato che rappresentano) per distinguersi rispetto a un’offerta di gioco border line o completamente illecita. Se in radio, in televisione o sui giornali non dovessero più passare le reclame dei siti di gioco legali, in effetti, il danno diretto per le società di gioco sarebbe davvero minimo: basta guardare i dati del fatturato del gioco online e in particolare quelli delle società più presenti in tv, per farsi un’idea (diverso, forse, sarebbe per gli imprenditori televisivi, come ha evidenziato il presidente di Confindustria Tv, ma questa è un’altra storia). Il danno reale e concreto, tuttavia, sarebbe quello di rendere indistinguibile l’offerta di un concessionario di Stato rispetto a quella di un sito internet illegale e con server posizionati in chissà quale paradiso fiscale. Quei siti di gioco che oggi non possono in nessun modo promuovere la loro attività, essendo inibiti da qualunque circuito commerciale, e che troverebbero a quel punto un forte beneficio da un’acquisita parità di condizioni che scaturirebbe da un divieto tour court.. E lo stesso ragionamento vale per il gioco ‘a terra’, se un locale di gioco che inaugura su un centro cittadino non potrà neppure comunicare l’apertura. Proprio come avviene per tutti gli altri centri di gioco illegali e non autorizzati.
Per questo è opportuno – e urgente, anzi – intervenire sul tema della pubblicità. In maniera rigida, puntuale e pure restrittiva, se necessario. Ma guai a un divieto assoluto, che darebbe soltanto linfa vitale al circuito illecito che si vorrebbe sconfiggere. Da qui il claim , che ben si presta a riassumere il concetto, parlando di pubblicità: toglietegli tutto, al gioco, ma non la legalità.

 

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