Niente da fare. Neanche questa è stata la volta buona per chiudere la partita tra Stato ed Enti locali sulla regolamentazione del pubblico e scrivere una volta su tutte la parola fine sull'annosa "Questione territoriale". Stavolta è stato il terremoto - così recita la nota ufficiale - a far slittare i lavori della Conferenza unificata. Anche se la sensazione è che non ci sarebbe stato comunque nessun accordo, pure in caso di regolare svolgimento dei lavori. Nonostante la parole rassicuranti dei giorni scorsi del sottosegretario Pier Paolo Baretta che indicavano una soluzione a portata di mano, a cui hanno fatto seguito alcune prese di distanza da parte di alcuni rappresentanti degli enti locali, in varie sedi.
Rimane tuttavia
la necessità e l'urgenza di una soluzione per il comparto e per la sopravvivenza del sistema del gioco legale (senza il quale, si badi bene, non si risolverebbe certo il problema delle dipendenze da gioco ma si lascerebbero soltanto i consumatori in balia dell'offerta illecita), visto il continuo proliferare di norme locali che rendono sempre più problematico l'esercizio di queste attività sul territorio. Una normazione sempre più diffusa e, va detto, a volte anche bizzarra, con situazioni che sfiorano l'assurdo. Ma creando comunque problemi notevoli alle imprese. Si pensi ad esempio
alle nuove norme adottate dal Comune di Verbania che limitano, insieme alle slot, l'esercizio dei videogiochi di puro intrattenimento. O le già note restrizioni del Friuli sui giochi per bambini (i cosiddetti Kiddie rides, cioè i cavallucci a moneta e simili) che diventano vietati proprio ai minori, pur essendo pensati unicamente per loro. Ma anche le semplici limitazioni di orario adottate in un gran numero di comuni italiani, pur essendo dichiarate formalmente legittime e apparentemente ragionevoli, rappresentano una discrasia di fondo i cui effetti sono a dir poco devastanti. Basti pensare che per ogni comune dove entra in vigore un'ordinanza che impone lo spegnimento delle slot alle 20 piuttosto che alle 22, molto spesso c'è n'é un altro confinante dove gli orari sono più ampi, oppure non esistono proprio delle restrizioni. E ciò comporta una migrazione dei giocatori da una sala all'altra, superando i confini che delimitano un territorio. Che in qualche caso significa soltanto percorrere pochi metri da una sala all'altra. Al di là della scarsa utilità della misura da un punto di vista della prevenzione e del contrasto alla "ludopatia" (visto che tale è lo scopo con cui si annunciano provvedimenti di questo tipo), quello che non deve essere ignorato è l'impatto devastante sul business di quegli imprenditori coinvolti in situazioni di questo tipo, che presto dovranno chiudere o ridimensionare fortemente le proprie aziende, non potendo più rientrare con i conti. Come poter accettare, dunque, non solo il fatto che si deve cessare un'attività per via di una norma restrittiva, ma anche la beffa, per giunta, nel veder sorridere un proprio competitor perché nel suo comune, al contrario, quella restrizione non è stata attuata. Per una sorta di condanna a morte firmata dalle istituzioni in modo quasi arbitrario. Come può essere legittimo tutto questo? È la domanda che continuano a porsi gli addetti ai lavori. Del resto era proprio per questa ragione che il legislatore, all'origine dei 'giochi', aveva previsto una Riserva di Stato su questo settore, imponendo cioè (ma solo sulla carta) una disciplina di carattere centrale sulla materia. Salvo poi rimangiarsela nel tempo, avallando una situazione divenuta oggi insostenibile - e a tratti imbarazzante - che bisogna assolutamente risolvere, una volta per tutte e per il bene di tutti.