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Alla ricerca della dignità perduta (e del cambiamento)

13 agosto 2018 - 09:57

Tutto cambia, nel gioco pubblico italiano: dopo il divieto di pubblicità, unnuovo mandato alle Dogane e l'annuncio di una riforma. Ma è davvero in nome della dignità?

Scritto da Alessio Crisantemi
Alla ricerca della dignità perduta (e del cambiamento)

 

Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi. E’ la storica lezione fornita da Giuseppe Tomasi di Lampedusa dall’analisi del nostro paese, ai tempi del Risorgimento, evidenziando quel marcato trasformismo politico della classe dirigente di allora. Salvo poi diventare sempre più attuale e caratterizzante di quel malcostume tipicamente italiano, rimasto inalterato nel tempo. E, forse, oggi ancora più marcato di allora. Più evidente, se non altro, in maniera quasi sfacciata. Al punto da far balzare alla mente quella massima divenuta una pietra miliare della nostra cultura, ogni volta che sentiamo pronunciare da un politico (e da un governo) parole di cambiamento. Che nel tempo si sono sempre più intorpidite, svilite, sintetizzate in semplici annunci o meri slogan. Fino a trasferire l’intera prassi istituzionale sul web e, peggio ancora, sui social network. Un trend anche questo evidente (e, ormai, del tutto irreversibile probabilmente), che ha toccato il suo punto di massima nei giorni scorsi, quando il Consiglio dei Ministri ha individuato i nomi dei nuovi direttori delle più importanti Agenzie del Paese, comunicando l’uscita di scena dei precedenti numeri uno di Entrate, Dogane e Demanio, attraverso un tweet del vice premier. O, meglio, lasciando che lo leggessero da soli, sui social. Senza neppure preoccuparsi di farglielo sapere in modo formale, magari anticipandogli la decisione, come vorrebbe la logica, e non solo la prassi.

Anche se, va detto, ad affidare la politica ai tweet, nel nostro paese, è stato il precedente premier, Matteo Renzi, anticipando un altro cambiamento epocale, che nulla ha cambiato. Spalancando la strada ai movimento populista che trova collocazione ideale nella sinterizzazione della politica e nello storytelling digitale. E ora a guidare il paese è proprio quel Movimento, esponente di una gioventù più dinamica e cinica al tempo stesso che sembra raccogliere tanti giovani Tancredi Falconeri, portandoli al governo. Al grido di: “onestà!, onestà!” e dietro all’annuncio, manco a dirlo, di un Grande Cambiamento. Proprio come si annunciava (e si attendeva) ai tempi del Risorgimento. Inevitabile, quindi, il maggior feeling con gli italiani, l’aumento del consenso, la luna di miele tra il nuovo potere e una larga parte del popolo. Molto meglio sentir parlare di “pulizia”, legalità e sussidi che di tasse e sacrifici, non v’è dubbio. Anche se le promesse hanno sempre il problema di dover essere mantenute e la politica, prima o poi, presenta sempre il conto.
Ad essere senz’altro cambiato, però, in questi primi mesi di governo giallo-verde, è l’approccio al mondo del gioco. Ma forse neanche troppo. Di certo, il divieto assoluto di pubblicità di ogni forma di attività con vincita in denaro rappresenta una novità senza precedenti, i cui effetti sono destinati ad essere pesanti non solo per l’industria ed il suo indotto, ma anche per il mondo dello sport e quello della cultura: non può sfuggire, tuttavia, come in questa azione politica dettata dal vice premier Luigi Di Maio, nonostante il colpo di scena del divieto, si possono individuare le stesse logiche seguite dai precedenti governi. Andando a colpire, cioè, quasi esclusivamente un segmento del gioco – ovvero quello degli apparecchi da intrattenimento, unico a cui si opera un aumento delle tasse, come avviene ormai in ogni finanziaria – e lasciando completamente inalterati tutti gli altri. E anche se il divieto di pubblicità è destinato a gravare in maniera più significativa sui settori del betting e dell’online, cioè gli unici che promuovono le loro attività sui grandi media, il risultato di tali previsioni è che a ottenere dei benefici dopo la scomparsa delle promozioni saranno i grandi marchi del gioco pubblico italiano e mondiali: vale a dire, quelle non ben definite “multinazionali dell’azzardo” contro le quali dichiara sistematicamente di volersi scagliare il nuovo governo, combattendo la “grande lobby”. Ma senza farlo, evidentemente. Senza contare che, nello stesso provvedimento in cui si invoca alla dignità dei cittadini, dopo le varie misure previste per il settore degli apparecchi, come il logo “no slot” e l’introduzione della tessera sanitaria per l’attivazione delle giocate, è stata inserita quella piccola clausola di salvaguardia delle entrate erariali, come in tutti i precedenti provvedimenti. In virtù della quale, legge alla mano, se le nuove disposizioni comporteranno una diminuzione del gettito, allora non si potranno fare: andando così a formalizzare ulteriormente la necessità dello Stato di quelle entrate, in maniera decisamente opposta da quanto annunciato ai cittadini: ma anche questo è un dejà vu, non una colpa di questo solo governo. Ma pur sempre e comunque in direzione opposta rispetto all’annunciato cambiamento. 

In ogni caso, il governo ha pensato bene di lasciare la porta aperta a ulteriori modifiche e interventi nella disciplina del gioco pubblico, annunciando una riforma generale del comparto entro i prossimi sei mesi. Per un’altra promessa di cambiamento, che non può che suscitare curiosità, ma anche grandi preoccupazioni, dentro e fuori all’industria. Continuando comunque a cogliere le grazie degli elettori, che pur non avendo mai chiesto un intervento contro il gioco - se non da parte di piccolissimi gruppi di minoranza che costituiscono l’opinione pubblica – non possono certo veder nulla di sbagliato in provvedimento che, oltre ad appellarsi espressamente alla dignità delle persone, promette anche la lotta serrata al Demone dell’azzardo e al neo-definito: “disturbo da gioco d'azzardo”. Diverso sarebbe, probabilmente, se gli italiani conoscessero i veri numeri che caratterizzano il comparto e la realtà di questa industria. Per esempio, osservando come il numero dei giocatori, negli ultimi anni, non sia mai aumentato bensì rimasto costante nel tempo, smentendo così sul nascere il valore del presunto potere della pubblicità dei giochi o, almeno, del suo “effetto devastante” sui cittadini, come denunciato a gran voce dall’esecutivo. E ancora, guardando i dati sulla diffusione della dipendenza e sui soggetti in cura presso il sistema sanitario nazionale, si vedrebbe che non vengono affatto spesi miliardi come dichiarato da vari soggetti, ma addirittura la spesa reale non è ancora stata quantificata in maniera analitica e i fondi destinati alla cura di questi soggetti (da parte peraltro dei precedenti governi) sembrano addirittura superiori alle reali esigenze. Com’è pure evidente, dai vari studi disponibili sui giocatori, che non c’è nessuna inclinazione da parte dei giovani verso gli apparecchi da intrattenimento, rendendo quindi addirittura inutile anche una misura come quella del lettore di tessera sanitaria appena introdotto dal Decreto dignità. Senza contare, poi, che il disturbo da gioco d'azzardo risulta all'ottavo posto tra le dipendenze che affliggono gli italiani, secondo uno studio dell'Istituto Superiore di Sanità.
Ma al di là delle specifiche misure previste dal governo, sarebbe interessante capire cosa vorrebbero davvero gli italiani: magari se preferirebbero mantenere l’attuale distribuzione del gioco invece di aumentare l’Iva, come sembra possa accadere a breve. Anche se, stando ai primi annunci, questo incremento dell’imposta “nulla cambia” rispetto all’attuale situazione economica e patrimoniale dei cittadini. Ma in questo caso si fatica davvero a immaginare un cambiamento che non cambia nulla e tutti noi, probabilmente, eviteremmo volentieri di doverlo scoprire sulla propria pelle, evitando questo rincaro a monte. Per adesso, però, si tratta soltanto di annunci (tanto per cambiare). E la politica, quella “vera”, ripartirà dopo la pausa di Ferragosto, già fin troppo infiammata dagli avvenimenti delle ultime ore. E per gli italiani non c’è che da augurarsi che il richiamo all’opera di Tomasi di Lampedusa, possa funzionare non tanto nei modi, quanto nei tempi. Lasciando cioè l’auspicio di un imminente Risorgimento, che prima o poi dovrà pur arrivare, in un modo o nell’altro. E nonostante la politica, verrebbe da dire.

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