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Fase 3: l'Italia riparte ma senza giochi, tra discriminazione e crisi occupazionale

04 giugno 2020 - 09:26

L'Italia ha riaperto i confini, nazionali e (in parte) internazionali dopo tre mesi di lockdown: ma rimangono fermi i giochi e a rischio è la tenuta dell'intero sistema legale.

Scritto da Ac
Fase 3: l'Italia riparte ma senza giochi, tra discriminazione e crisi occupazionale

La “fase 3” è iniziata con l'Italia che registra una nuova ripartenza. Dopo la “fase 2” di maggio, è caduto ora anche il divieto di spostamento fra regioni: da ieri, mercoledì 3 giugno, si circola senza condizioni, mentre i cittadini dell'area Schengen e della Gran Bretagna potranno arrivare nel Paese senza l'obbligo della quarantena. Rimangono però in vigore alcune limitazioni: dal divieto di assembramento al mantenimento della distanza interpersonale, all'uso della mascherina nei luoghi chiusi, fino alle regole stringenti da rispettare sui mezzi pubblici. Oltre alle restrizioni per chi ha febbre oltre i 37,5° e sintomi respiratori, e all'obbligo di stare a casa per i cittadini in quarantena.


Tra le restrizioni che continuano a rimanere in vigore, però, c'è anche quella – totale e ormai esclusiva – che riguarda le attività di gioco. Le uniche, ad oggi, a non poter rialzare la saracinesca (a rimanere chiusi sono le sale slot e Vlt, i bingo e le agenzie di scommesse) e a non poter neppure raccogliere entrate al di fuori dei locali specializzati, visto che non possono ancora essere attivati neppure i terminali di gioco che si trovano all'interno dei punti vendita autorizzati all'esercizio: come i bar e le tabaccherie, dove ci sono slot o corner di scommesse, che rimangono spenti.

Per una vera e propria discriminazione, sotto gli occhi di tutti, rispetto alla quale, in questa fase, si fatica a trovare qualunque tipo di spiegazione. Ad oggi, infatti, non si può certo più parlare di ragioni di sicurezza o di prudenza, tenendo conto che a ripartire sono state ormai tutte le altre attività: sia quelle con livelli di rischio contagio anche più elevati rispetto alle attività di gioco (si pensi a centri estetici, centri di massaggi, palestre o piscine), ma anche tutte le altre attività che magari vengono esercitate in ambienti ristretti nei quali è difficile gestire le distanze tra clienti.

Mentre nel gioco non sono ancora stati attuati – né tanto meno discussi – neppure degli specifici protocolli di sicurezza per la riapertura, nonostante le associazioni di categoria e le organizzazioni sindacali abbiano proposto soluzioni ad hoc, in grado di garantire massima sicurezza e facilità di gestione e controllo dei locali.
Nonostante qualche timido approccio da parte di alcuni rappresentanti regionali, il tema continua ad essere sostanzialmente ignorato da parte del Governo: con l'unico riferimento al mondo del gioco che arriva in maniera indiretta, da parte dei governatori di Veneto e Liguria, ai quali interessa far ripartire il gioco ma più che altro quello delle rispettive case da gioco. Un tema, questo sì, di cui ci si sta occupando in queste ore, e non solo al Nord Italia. Al punto che si potrebbe arrivare all'ulteriore paradosso di veder ripartire i casinò italiani prima ancora del resto del gioco.
 
GIUDIZI E PREGIUDIZI - Eppure il premier Giuseppe Conte, che nel discorso di ieri si è espresso a favore della “ritrovata socialità”, consigliando comunque di mantenere un livello elevato di prudenza, facendo attenzione alle uniche misure efficaci contro il virus che sono rappresentate da “distanziamento fisico e uso, ove necessario delle mascherine”, ha annunciato che valuterà diverse opzioni per il rilancio economico del Paese, rispolverando – addirittura – anche i vecchi progetti di grandi opere, come il ponte sullo Stretto. “Senza pregiudizi valuterò tutto”, ha risposto Conte a una domanda in proposito.
Anche se i pregiudizi sembrano permanere rispetto al gioco pubblico: unico settore che continua ad essere palesemente discriminato da parte dell'Esecutivo, e non solo. Nonostante i rischi – decisamente notevoli - a cui si sta andando incontro, senza che nessuno sembri preoccuparsene. A partire da quello di una forte ricaduta nell'illegalità, pensando alla ripartenza dei campionati di calcio mentre continuano a rimanere chiuse le agenzie di scommesse, che rappresenterebbe un autentico regalo per la criminalità organizzata e gli allibratori clandestini. I quali, probabilmente, non aspettano altro che un passo indietro da parte dello Stato nel gioco legale per riprendere in mano un business che gestivano direttamente, prima della legalizzazione del comparto.
Il rischio più grande ed evidente, tuttavia, è quello di carattere economico e occupazionale, con le decine di migliaia di aziende che compongono la filiera del gioco legale ormai allo stremo e che si vedranno costrette a chiudere definitivamente dopo oltre tre mesi di inattività. Mettendo quindi per strada una buona parte di quelle circa 150mila persone che lavorano oggi nell'industria italiana del gaming. Un autentico scempio, che diventa ancor più grave (e incomprensibile) guardando i dati economici generali della Penisola che propongono scenari altamente drammatici.
 
IL DRAMMA OCCUPAZIONALE - Proprio ieri sono circolati i numeri che certificano il crollo dell’occupazione ad aprile, che dimostrano come l'epidemia di Covid-19 inizia a far sentire i suoi effetti anche sul mercato del lavoro. Stando ai dati su occupati e disoccupati mensili pubblicati dall'Istat, ad aprile l'occupazione è crollata di 274mila unità, spinta al ribasso dalla caduta verticale dei lavoratori a termine e degli indipendenti. Il fattore più insidioso, peraltro, è che chi ha perso il lavoro è andato a ingrossare simultaneamente le file degli inattivi: forti di un boom di +746mila unità nell'arco di un mese. Figuriamoci cosa potrà accadere a partire dai prossimi mesi quando al conto si andranno ad aggiungere anche i lavoratori del gioco legale. Per un autentico suicidio di Stato e uno sterminio della piccola e media impresa italiana in un settore che, piaccia o no, rappresenta comunque una parte dell'economia nazionale e un mercato gestito in nome e per conto dello Stato, e che anche per questo non può essere dimenticato. O, peggio ancora, discriminato e condannato.
 
 

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