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Quell'unica industria che continua a mancare

05 giugno 2017 - 08:08

Per uscire dalla crisi una volta per tutte il settore del gioco dovrebbe ragionare da (vera) industria e non più come agglomerato di imprese.

Scritto da Alessio Crisantemi
Quell'unica industria che continua a mancare

 

C'è una frase che continua a ronzarmi in testa, in questi ultimi giorni. La scrissi qualche anno fa, in un editoriale di inizio anno, a gennaio del 2014 e recita così: "O si fa il comparto o si muore". Una citazione forse fin troppo banale, che non ha certo bisogno di tante spiegazioni, con cui intendevo criticare gli atteggiamenti divisivi di quel momento, nel settore. In quel classico clima del "si salvi chi può" che troppo spesso caratterizza le situazioni di crisi. Per un "tutti contro tutti" che nulla può - né tanto meno vuole - rifondare o ricostruire, ma solo rimediare, attutire, rattoppare. E quindi, seppure involontariamente, assecondare quella situazione di difficoltà o quel cambiamento in atto.

È triste notare oggi come quelle parole scritte allora siano risultate vane. E come siano ancora terribilmente attuali. Anzi. Forse in queste ultime settimane e mesi la situazione è anche ulteriormente peggiorata, dal punto di vista dei rapporti tra categorie o, peggio ancora, tra diverse sigle che rappresentano le stesse categorie. Come del resto risulta ancora più scoraggiante il contesto in cui tutto ciò avviene: in un panorama politico ed economico tutt'altro che favorevole né rassicurante per il settore, ma anche da un punto di vista mediatico e (forse anche di conseguenza) sul piano sociale. Ma forse non è un caso. O, comunque, i due eventi non sono da ritenere scollegati. E se le cose, nel tempo, sono soltanto peggiorate è probabilmente anche per via di quella mancanza di unità tra i diversi attori della filiera, nell'impossibilità ormai conclamata di proporre soluzioni comuni, globali, di sistema. Per dirla in poche parole: l'incapacità di ragionare da (vera) "industria" e non più come agglomerato di imprese.
 
Eppure dalla politica il segnale era arrivato forte e chiaro, già diversi anni fa, quando i rapporti apparivano decisamente meno ostili (nonostante i vari problemi del tempo, che comunque non mancavano): cioè il bisogno di un interlocutore unico, di un soggetto il più possibile globale che sappia raccogliere le istanze dell'intera filiera (di un'industria, appunto), confrontandosi e dialogando con le istituzioni, in un momento storico difficile non solo per le imprese ma anche per la stessa politica, e i vari governi che si sono succeduti nel tempo. Ed era proprio questo lo scopo di quell'editoriale di allora: provare a suscitare una riflessione sulla necessità di ritrovare un dialogo dentro e fuori al settore, superando le antiche divisioni di quartiere (o di terreni, pensando ai singoli orticelli che si vorrebbero salvaguardare e continuare a coltivare) e provando a recuperare quel rapporto perduto con la politica e i governi, oggi addirittura disintegrato, al punto da portare sul patibolo il sottosegretario all'Economia, come se fosse lui l'antagonista del settore, invece dell'interlocutore principale.
 
Sono anni che si sente parlare di volontà oscure, disegni precostituiti e chissà quali ulteriori retroscena, mirati a favorire una determinata categoria o cancellarne un'altra. Mentre non ci si accorge che a rischiare di affondare è l'intero settore, nessuno escluso.
 
Ho sempre rifiutato l'idea di una manovra precostituita per affossare questo settore o una parte della filiera: anche quando i fatti e gli eventi quotidiani facevano pensare al peggio. Proprio come in questo momento: tra gli assurdi (perché insostenibili) rincari proposti dalla Manovra Bis e le richieste sempre più stringenti degli enti locali in Conferenza unificata, dove la soluzione continua a non arrivare. Ammesso che sia davvero raggiungibile. E, soprattutto, se mai arriverà una proposta di sintesi da parte dell'organo istituzionale, che si possa davvero considerare una soluzione.
 
Ma a chi rilancia le teorie complottiste e "anti-settore", vogliamo suggerire una ulteriore lettura dei fatti di questi ultimi anni: perché se proprio si vuole trovare un "disegno" dietro alle azioni di un 'legislatore-manovratore", questo potrebbe rispondere alla logica del "divide ed impera". Cioè quella tecnica socio-politica - frequente nelle tirannie, più che nelle democrazie - utilizzata in tutti gli ambiti in cui, per ottenere il risultato, è necessario o vantaggioso spezzare o dividere ciò che si oppone alla soluzione di un determinato problema. Che in questo caso, sarebbe proprio la filiera.
 
E se fosse davvero questa la "grande manovra" in corso d'opera da parte dello Stato, per utilizzare il gioco pubblico unicamente alla stregua di un bancomat, non sarà forse il momento di fare sistema, per quanto possibile, almeno nella gestione di una situazione di crisi tremenda come quella attuale?
 
Forse qualcuno, tuttavia, se ne sta accorgendo. E nonostante i vari mal di pancia e le difficoltà nel sedersi ai diversi tavoli di lavoro aperti in questi mesi, è evidente come qualcosa si stia muovendo, di nuovo, sul fronte di Confindustria: partendo dalla sua rifondazione dei mesi scorsi, fatto che significa comunque che c'è ancora chi crede al progetto e alla necessità di un interlocutore unico, fino ad arrivare agli sviluppi più recenti che hanno visto tornare a parlare, attraverso lo stesso microfono, le associazioni che rappresentano i concessionari dopo le scissioni degli scorsi anni. Ma il tavolo, al di là delle etichette e delle appartenenze, deve continuare ad espandersi. Guardando alle possibili soluzioni e non più alle origini dei vari problemi. Per rendere meno credibile l'ipotesi di una strategia delle divisioni volute per "imperare" e governare il settore. Scacciando le streghe e affrontando i veri problemi, perché adesso c'è n'è davvero bisogno.
 

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