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Quando la toppa è peggiore del buco: ma funziona (forse) per l'elettorato

18 giugno 2018 - 10:45

Il “governo del cambiamento” inizia a parlare di giochi: non più divieti, se non quello di pubblicità. Nonostante i rischi e gli squilibri di mercato.

Scritto da Alessio Crisantemi
Quando la toppa è peggiore del buco: ma funziona (forse) per l'elettorato


Melius abundare quam deficere, dicevano i latini. Un antico adagio che sembra rivelarsi un autentico leitmotiv della politica italiana del Terzo Millennio, in cui l'abbondanza di norme, vincoli restrizioni e divieti parziali, è finita col contraddistinguere in maniera sempre più incisiva ogni mercato. Una conseguenza diretta (e inevitabile) di quel malcostume politico – tipicamente italiano – degli ultimi decenni, che prevede il ricorso alla legiferazione d'urgenza, invece di programmare, prevedere e anticipare il futuro, provando quindi a governare i fenomeni, invece di subirli, tentando di mettere una toppa dopo che lo sgarro si è ormai verificato. Succede, in particolare, nel comparto del gioco pubblico: dove l'abbondanza normativa è forse molto più evidente rispetto a qualunque altro settore dell'economia nazionale. Ma lo stesso si verifica anche in altri contesti: basti pensare alla questione dei cosiddetti “rider”, rispetto alla quale l'attuale governo prevede un intervento (solo teoricamente) risolutivo, decisamente tardivo: dopo che negli ultimi anni sono state costruite imprese, attività e business, anche di portata internazionale, basati esclusivamente su quell'eccesso di “flessibilità” del lavoro, senza che nessuno dicesse nulla. E nonostante lo spaventoso aumento del precariato – divenuto ormai regola nel panorama lavorativo del nostro paese – più volte denunciato, nel corso degli ultimi anni, da tutte le parti. Ma senza mai intervenire. Anzi, al contrario, assecondando e cavalcando il modello capitalista della new economy che pur portando benefici momentanei in termini di investimenti, è finito col generare la situazione di precarietà generale, oltre a provocare la chiusura di attività retail, che non sono più in grado di competere con la concorrenza che viaggia in rete, proprio perché mal governata (e non per via della pericolosità dell'e-commerce in sé, come alcuni vorrebbero lasciarci credere). Ora però, nonostante tutto, si annunciano altri provvedimenti. D'urgenza, naturalmente: e al posto di una vera riforma del mondo del lavoro, certamente più difficile e articolare. Ma sempre più risultata. Con il risultato che si andranno ad aggiungere norme, su norme, su norme, provando a inseguire un fenomeno ormai consolidato, globale e altamente diffuso.

Nel gioco pubblico, dicevamo, le cose vanno addirittura peggio: qui l'abbondanza normativa è un fenomeno che l'industria subisce da anni, a partire dalla legalizzazione del Duemila, e che si traduce in un vero e proprio delirio normativo caratterizzato da una stratificazione e una sovrapposizione di misure che “governano” (si fa per dire) il comparto in modo completamente eterogeneo nelle varie zone della Penisola. Caratterizzando anche uno squilibrio nelle regole di mercato, quindi di distribuzione dell'offerta e di concorrenza, a livello locale. Un fenomeno conosciuto oggi come “Questione Territoriale”, che continua a protrarsi, irrisolta, dal 2011 e anche di più. Nonostante gli squilibri di cui sopra. Come è ormai noto a tutti (ad eccezione della politica e del nuovo governo, a quanto pare), le diverse regole dettate all'industria del gioco da Comuni, Provincie e Regioni - anche in barba alla Riserva di Legge (in teoria) tutt'oggi vigente nel nostro paese - fanno sì che un operatore che lavori in un determinato comune italiano, si veda costretto a rimuovere i propri giochi da un locale perché soggetto a una particolare delibera comunale, quando a pochi chilometri da quel locale lo stesso tipo di offerta non è soggetta ad uguale limitazione, solo perché afferente ad un altro comune. Con il risultato che il giocatore (che quella norma voleva magari tutelare) dovrà soltanto cambiare locale per continuare a giocare le stesse cifre di prima. Mentre quell'azienda e quel locale che hanno dovuto rimuovere i giochi, saranno costretti, prima o poi, a chiudere baracca: vedendo arricchire un proprio competitor, proprio grazie a quella norma. In maniera illogica, scriteriata,  indiscriminata. E' evidente che non è questa la soluzione né in termini di tutela dei consumatori e di prevenzione, ma neppure in termini di regolamentazione di un'attività economica e produttiva. Senza contare, per giunta, i rischi in termini di sicurezza e ordine pubblico, visto che nei casi peggiori, la scomparsa dell'offerta di gioco legale viene rimpiazzata da offerte illegali. Per un evidente paradosso legislativo, ma purtroppo sempre più frequente e diffuso.
Eppure, nonostante gli evidenti danni causati dalle regionali e, quindi, dall'abbondanza di norme riferite a questa materia prodotte negli anni (al punto che, già nel 2009, si parlava della necessità di riordinare il surplus legislativo in un Testo Unico dei giochi, mirato alla semplificazione e all'ottimizzazione, mai arrivato), anche il nuovo governo cade nella stessa trappola, proponendo misure (dichiaratamente) tampone sui giochi, pur conoscendone, probabilmente, anche la sterilità: ma senza rendersi conto, probabilmente, della pericolosità.
A tornare alla carica, in materia di gioco pubblico, è il Ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, Luigi di Maio: il quale, prendendo atto dell'insensata promessa elettorale di “eliminare i giochi” (più volte evidenziata su queste pagine già prima della retromarica grillina), spiega come sia allo studio un provvedimento mirato ad eliminare la pubblicità dei giochi, per poi “cominciare a dire che è vietato installare slot vicino alle scuole, dando un limite alle città e sostegno alle Asl per aiutare chi ha problemi di dipendenza”. Dimenticando, evidentemente, che queste stesse misure erano già contenute nel progetto di “riordino dei giochi” del precedente governo, fortemente criticato e contrastato proprio dal Movimento 5 Stelle. Ignorando, per giunta, che sullo strumento del cosiddetto “distanziometro” si attende da tempo un pronunciamento della Consulta – chiamata a valutare per esattezza l'Effetto Espulsivo delle leggi regionali che adottano tale strumento – che potrebbe anche dichiarare questa soluzione non idonea. E che sarebbe forse opportuno aspettare. Anche sul tema della pubblicità, tuttavia, sarebbe opportuno notare come la materia è stata già oggetto di più interventi legislativi: attraverso il Decreto Balduzzi prima e con la Legge di Stabilità del 2016 poi, che hanno già scatenato numerosi dubbi interpretativi legati proprio alla sovrapposizione normativa, che non hanno certo aiutato né gli operatori, ma neppure le amministrazioni che tali norme dovrebbero far applicare e funzionare. Purtroppo, però, partorire un decreto è senz'altro più facile rispetto ad intraprendere un percorso di riforme: e anche più “remunerativo”, seppure nel brevissimo termini, a livello elettorale (ammesso poi che i cittadini si preoccupino veramente di questi aspetti, che vengono per lo più ignorati). Ma i danni nel medio e lungo periodo provocati da questo tipo di misure sono sempre più diffusi e ormai all'ordine del giorno, visto che oggi si raccolgono i frutti delle decisioni scellerate degli anni (e dei governi) precedenti. Possibile che neanche il “governo del cambiamento” riesca a rendersene conto?

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