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Il senso dello Stato nella crisi

02 marzo 2020 - 10:15

In un periodo di crisi generale dettata dall'emergenza sanitaria nazionale, torna a diffondersi l'esigenza di uno Stato e il senso delle istituzioni: un'occasione per puntare alle riforme.

Scritto da Alessio Crisantemi
Il senso dello Stato nella crisi

L’epidemia da coronavirus ha preoccupato e agitato l’intero paese, in questi ultimi giorni, scoprendo i nervi di politica e istituzioni. Oltre a manifestare tutti i limiti di una classe dirigente già in affanno nelle questioni ordinarie, che si è presto dimostrata del tutto impreparata ad affrontare emergenze straordinarie come quella di carattere sanitario attualmente in corso. Facendo così affiorare tutte le criticità celate o (mal)riposte dall’esecutivo, in un mescolarsi di vecchi e nuovi problemi i cui risultati sono adesso sotto gli occhi di tutti. Basta osservare l’atteggiamento assunto dalle amministrazioni regionali nel gestire l’emergenza sanitaria, vera o presunta che fosse. Oltre alle regioni contenenti le diverse “zone rosse”, per le quali una situazione di panico può essere certamente compresa - ma senza dover necessariamente giustificare decisioni autonome, quindi extra-governative - anche in alcuni di quei territori in cui non si è ancora ravvisato nessun caso di contagio, come per esempio le Marche, sono stati adottati provvedimenti restrittivi, seppure in conflitto con la linea suggerita dal governo.

Un atteggiamento che mette in luce una delle principali anomalie che caratterizzano il nostro paese, ormai ben nota agli addetti ai lavori del gioco pubblico, che noi avevamo battezzato: “Questione territoriale”. Cioè il conflitto, sempre più evidente, tra lo Stato e gli enti locali, che nel gioco trova forse la sua massima espressione ma che, forse, non si limita soltanto a questo settore. Anzi. Coronavirus docet. 

Ma non è certo l'unico disagio emerso chiaramente da questa emergenza nazionale e internazionale. Come pure non si tratta dell'unica lezione da ricavare. Con la sensazione, ormai sempre più diffusa, che le competenze, qualche volta, servono. Soprattutto in politica. Dove non basta il fatto di essere onesti (e ci mancherebbe altro, bisognerebbe sempre aggiungere) per poter ricoprire posizioni decisive nell'organizzazione democratica del nostro paese: che si tratti di incarichi istituzionali o di mandati governativi o parlamentari, come invece si gridava a gran voce nelle piazze dell'intera Penisola fino a qualche mese fa. E adesso, probabilmente, non più. Nonostante l'imprevedibilità di questa epidemia, la sua portata e la conseguente difficile trattazione della materia, che in parte giustifica il clima di palese improvvisazione che regna sovrano in queste ultime settimane in Italia, non si può far a meno di ricordare come, fino a pochissimo tempo fa, gran parte della popolazione si stracciava le vesti in piazza, sostenuta da una parte della maggioranza di governo, condannando lo Stato italiano per l'imposizione dei vaccini. Ritenuti inutili e pericolosi e somministrati – vox populi - a scopo di business, condizionato dall'immancabile riferimento alla lobby di turno: salvo poi ritrovarsi oggi in un delirio collettivo, fatto di corse ai supermercati e di produzioni di improbabili disinfettanti per mani fai da te, nella pretesa generale di arrivare più presto possibile (ironia della sorte) alla creazione di un vaccino in grado di bloccare la diffusione del coronavirus. Ironia della sorte.
Ecco quindi che l'epidemia da Covid-19 potrebbe avere l'effetto di risvegliare le menti e le coscienze degli italiani, riavvicinandoli, magari, alle istituzioni, ora che tutti si raccomandano allo Stato per risolvere la crisi generale provocata da questa emergenza, con tutte le conseguenze in termini economici e produttivi che questa comporta. Riuscendo, forse, a debellare l'altro virus assai diffuso, in Italia e non solo: cioè quello del populismo, che ha infettato la maggioranza della popolazione e stravolto le convinzioni e gli equilibri istituzionali, in maniera assai più pronunciata e significativa dell'attuale emergenza sanitaria.
Adesso, forse, è arrivato il momento di riscrivere la storia, almeno nel nostro paese. Ora che sembra diffondersi nuovamente la consapevolezza che per governare serve esperienza, ma soprattutto competenza: e che non bastano gli slogan e le frasi a effetto per gestire, né tanto meno risolvere, un problema. Se è vero che in ogni crisi si nasconde un'opportunità, quella che dovrebbe scaturire dall'emergenza provocata dal coronavirus, una volta che saremo tornati nella normalità, è la possibilità di rimettere in sesto la struttura democratica del nostro paese, provando a diffondere una nuova fiducia verso le istituzioni che potrà tuttavia innestarsi solo e unicamente se tutte le forze politiche manifesteranno un atteggiamento responsabile: non più speculativo e a scopi elettorali, ma orientato al bene comune. A cui, forse, non eravamo più abituati a pensare, almeno prima di questa epidemia con la quale, invece, è tornato al centro del dibattito proprio quest'ultimo: il bene comune. Che non appare più un concetto astratto o una mera definizione (o costruzione) politica, ma un'esigenza diffusa, che si declina nelle tante esigenze che dominano oggi la scena e che riportano in tutti i cittadini, se non il senso, almeno l'esigenza di uno Stato e delle istituzioni. E' proprio sulle macerie che verranno lasciate sparse da questa epidemia dovrà quindi essere aperto un nuovo cantiere democratico, allo scopo di rimettere in sesto il paese e dare il via a quella Terza Repubblica invocata da decenni, salvo poi essere sostanzialmente abbandonata con il diffondersi del virus populista. Ricostruendo la nazione, non soltanto idealmente, ma anche concretamente, attuando tutte quelle riforme che da troppo tempo attendono di essere compiute.
In questo scenario di ricostruzione, dunque, dovrà trovare spazio anche la riforma del gioco. Per riordinare un comparto così grande - in termini di fatturato e di diffusione - e talmente delicato – pensando alle conseguenze in ambito sociale e sanitario – da non poter più essere ignorato. Tenendo anche conto dell'esigenza – ancora una volta primaria – del nostro paese, di generare nuove entrate per far fronte anche ai nuovi dissesti provocati dal coronavirus, che si aggiungono alla già tutt'altro che facile situazione economica generale, che imponeva comunque soluzioni concrete per evitare nuovamente l'aumento dell'Iva. Ormai è noto a tutti, governo in testa, non soltanto che dal gioco non si può più tirar fuori nulla di più di quanto non si sia già preso: ma anche che è già difficile riuscire a ottenere le stesse entrate che venivano garantite fino allo scorso anno. Ora che i troppi nodi generati dall'assenza di riforme stanno venendo tutti al pettine, al punto da rendere la situazione non più gestibile. Senza una riforma generale del comparto, non si potranno effettuare le gare per il rinnovo delle concessioni che sembrano rappresentare oggi l'unico elemento portatore di nuove entrate per l'Erario: ma non si potranno neppure ottenere le stesse entrate raggiunte negli anni precedenti, come evidenzia il trend di assoluto declino delle videolottery sul territorio (-35 percento), già prima dell'epidemia, che ha ulteriormente compromesso la raccolta.
La speranza, dunque, è che il delirio collettivo che si sta vivendo a causa del coronavirus possa risolversi presto, riportando il paese alla normalità, invitando la politica a inaugurare una nuova stagione di riforme e, magari, anche di buon senso. Perché le emergenze, ci insegna la storia, non finiscono mai: ieri era un terremoto, poi un'alluvione e ora un'epidemia. Meglio dunque risolvere ciò che è risolvibile nei momenti di apparente tranquillità, come quelli in cui ci auguriamo di tornare presto.

 

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