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L'operatore di gioco ai tempi del coronavirus

30 marzo 2020 - 08:27

Le imprese del gioco attendono di ripartire, come il resto dell'industria italiana: ma nel silenzio generale, dettato dalla responsabilità e da troppi timori. Ma stavolta, serve un cambio di passo.

Scritto da Alessio Crisantemi
L'operatore di gioco ai tempi del coronavirus

Non è mai stato facile, in Italia, lavorare nel comparto del gioco pubblico. A qualunque titolo. Sempre al centro di polemiche, accuse, strumentalizzazioni da parte dell'opinione pubblica o dei media, per poi essere bistrattati anche dalla politica. Sistematicamente martoriati da continui inasprimenti della tassazione, spinti all'eccesso e anche ben oltre ogni principio di proporzionalità, ma senza che nessuno se ne accorga. E senza alcuna possibilità concreta di far sentire la propria voce o tentare di far valere le proprie ragioni, di imprenditori sani, di contribuenti e di attori di un'industria (malgrado tutto e checcé se ne dica) responsabile. Figuriamoci cosa può accadere in tempi di una pandemia globale e di crisi diffusa, quando l'intero paese – e non solo il nostro – è alle prese con un'emergenza sanitaria di cui non si riesce a vedere la fine e con una crisi economica che rischia, come la pandemia, di rivelarsi assolutamente senza precedenti.

Nello scenario di guerra – come è stato da più parti definito il paradigma italiano delineato dal coronvirus – in cui ci troviamo in questi giorni, immobili spettatori di un destino ancora indefinito ma legato indissolubilmente allo sviluppo del virus e ai risultati della strategia di contenimento adottate in queste ultime settimane, e in preda alle decisioni dell'esecutivo. Chiamato, in primis, ad arginare la diffusione dell'epidemia, ma al tempo stesso obbligato a trovare soluzioni concrete per evitare di portare la nazione in default, doo l'interruzione di grand parte delle attività economiche e industriali.
L'operatore di gioco è senza dubbio uno dei più colpiti da questa situazione straordinaria e dal lock down imposto (correttamente) dal governo a partire dai primi giorni di marzo. Con la serrata dei locali disposta ormai circa un mese fa, che per le aziende del gioco pubblico significa zero raccolta, nessuna entrata, assenza totale di liquidità. Oltre a una serie di oneri che l'intera filiera ha dovuto portare a termine, durante le scorse settimane, prima di abbassare le saracinesche, che per questo tipo di imprese si aggiungono a tutte le altre pratiche tipiche della gestione aziendale, comuni a qualunque realtà imprenditoriale. A causa del profilo pubblico delle società che operano nel comparto, dovendo trattare denari che rappresentano anche delle entrate erariali. 
Tutto questo, nel pressoché totale silenzio. Rimanendo in disparte. In una quarantena silenziosa – come quella di tanti italiani – dominata dai dubbi e dalle preoccupazioni, comuni per tutti gli altri imprenditori, ma con la consapevolezza – questa sì, davvero unica – che se la ripartenza non sarà facile per nessuno, per il comparto dei giochi sarà ancora più ardua. Come del resto di comincia già oggi a delineare. Nelle prime indiscrezioni trapelate da Palazzo Chigi, in cui si inizia a parlare (e per fortuna) della ripartenza del paese dopo il lock down, comunque non prima di fine aprile, i locali di gioco vengono messi all'ultimo posto nel percorso di graduale ritorno alla normalità. Com'è inevitabile, diciamolo pure, tenendo conto dell'aggregazione di persone che è titpica dei locali di gioco, ma anche della minore importanza che viene attribuita alle attività ludiche – peggio ancora, di “azzardo” - rispetto alle altre. Il timore delle imprese del gioco, tuttavia, è un altro, e neppure infondato: quello cioè di essere considerati ancora una volta gli “ultimi” non solo nella cronologia del piano di riapertura, ma anche nella lista delle attività economiche da tutelare e da supportare per la ripartenza dell'economia. Dovendo anche misurarsi con una minore propensione e disponibilità alla spesa da parte degli italiani che comporterà inevitabili contrazioni nella spesa al gioco.
L'atteggiamento del governo – come pure quello degli ultimi cinque che lo hanno preceduto – nei confronti di questo comparto è stato sempre particolarmente ostile, come dimostrano le misure economiche adottate con l'ultima manovra economica, che ha portato oltre ogni sogli di sostenibilità la tassazione di tutti i giochi e in particolare degli apparecchi. Solo che stavolta non ci sarà più spazio per le differenze e non ci potrà essere futuro per quelle imprese che verranno lasciate sole dallo Stato. Nonostante la resilienza dimostrata più volte dall'intera filiera, questa volta nessuno sarà in grado di uscire dalla crisi senza un intervento del governo e l'adozione di politiche economiche efficaci, per tutti. Stavolta dovrà prevalere la concretezza. Senza suggestioni di sorta e speculazioni di nessun tipo, guardando all'occupazione – che deve essere garantita, il più possibile, anche in questo settore – e più in generale all'economia. Mettendo da parte le ideologie che hanno dominato ogni scelta fatta sul gioco fino a ieri, portando la filiera alla sfacelo, e alla crisi che si faceva già a sentire, nei primi due mesi dell'anno, anche prima dell'epidemia.
Del resto – e bisognerà tenerne conto – quando si potrà tornare alla normalità e alla riapertura di tutti i locali, sarà difficile parlare di gioco patologico in faccia a una vera pademia. Ma sarebbe pure oltremodo anacronistico, tenendo conto – come evidenziato su queste pagine – della prolungata astinenza da parte dei giocatori nei confornti del gioco terrestre che avrà interrotto ogni atteggiamento compulsivo nei giocatori più a rischio. Il che non significa, naturalmente, non doversi preoccupare del problema, perché le ricadute – come si dice in queste ore per il virus – sono spesso più preoccupanti della stessa patologia: ma di certo non potrà essere più quello l'unico elemento da valutare nella trattazione della materia gioco da parte della politica. 
Nel frattempo, tuttavia, gli operatori del gioco pubblico attendono speranzosi di poter superare la crisi. In un silenzio dettato comunque da un senso di responsabilità, prima ancora che dalla preoccupazione. Con la consapevolezza che la battaglia da disputare oggi riguarda tutti e riguarda anzitutto la vita delle persone. Un concetto facile da capire, forse scontato, ma non per tutti: come rivelano i tanti (e forse troppi) discorsi che si stanno susseguendo sulla shock economy e sulle opportunità di guadagnare da questa situazione di emergenza, che coinvolgono anche figure di spicco dell'imprenditoria italiana. Con un tono fastidiosamente speculativo e fin troppo orientato al pragmatismo, che non appartiene, questa volta, alla filiera del gioco, la quale ha preferito dedicarsi alla raccolta di fondi per la gestione dell'emergenza, da più parti e a vari livelli, spesso anche nel più totale silenzio. Evitando di sbandierarlo ai quattro venti. Anche se, probabilmente, nessuno se ne accorgerà, nemmeno adesso. Con il gioco pubblico che continerà a rappresentare il nemico pubblico. O forse no, adesso che ci siamo misurati tutti con i problemi veri e con una pandemia reale, che ha portato allo stremo il sistema sanitario, e che potrebbe avere come unico effetto positivo, quello di riequilibrare le priorità non soltanto nell'agenda di governo e nei palinsesti mediatici, ma anche nella percezione comune.

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