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Si riparte, anzi no: troppo poco e troppo tardi per salvare l'economia

27 aprile 2020 - 08:13

Il governo delinea la nuova strategia per la ripartenza e la fase due: ma rimanda i giochi (e non solo) a una non ancora ben definita “fase tre”.

Scritto da Alessio Crisantemi
Si riparte, anzi no: troppo poco e troppo tardi per salvare l'economia

L'Italia è pronta a ripartire. Ma non del tutto, non ancora. Gli ultimi, come abbiamo già detto più volte, saranno i giochi. Nonostante la ripartenza di alcuni prodotti, che potranno tornare ad essere offerti a partire dalla prima metà di maggio (ma solo nei locali che potranno alzare la sarcinesca, legge alla mano), per la riapertura delle sale e di tutte le location specializzate, bisognerà aspettare almeno il prossimo giugno. Dopo le anticipazioni dei giorni scorsi, la conferma ufficiale è arrivata dal premier Giuseppe Conte e dall'ultimo Dpcm appena siglato - e raccontato agli italiani – con il quale (tra le altre cose) si rimanda al primo giugno l'apertura delle attività commerciali ritenute più critiche, in termini di contagio. Come quelle che riguardano la cura della persona (parrucchieri, centri estetici e così via), dove il contatto umano è inevitabile, o i luoghi di aggregazione. Anche se nell'elenco generale non si fa ancora menzione esplicita delle attività di gioco: per le quali la certezza è che bisognerà attendere la cosiddetta “fase tre”, senza però sapere, ad oggi, quando questa potrà cominciare. Con il rischio che non sarà neppure l'inizio di giugno la data utile. Ma al di là delle date, sulle quali si può anche essere d'accordo, non essendoci certo l'urgenza di far tornare gli italiani a giocare, quel che preoccupa è la mancaza di programmazione riguardo a spcifici settori. E di considerazione, almeno per il comparto giochi.

I locali da gioco sono finiti nel calderone delle “altre attività”: quelle che non meritano neppure di essere nominate, a quanto pare: anche se l'assimilazione alle altre attività di svago, come discoteche e concerti – quelli sì, citati più volte e comunque rimandati alla fase tre – sembra essere il criterio adottato dagli esperti incaricati dal governo di dettare l'agenda della ripartenza. Ma non è certo quello che chiedevano gli addetti ai lavori del comparto. Anzi, a dire il vero, la richiesta dell'industria dei giochi era proprio quella di considerare le attività di gioco alla pari degli altri esercizi commerciali. Se si può tornare a fare shopping, individuando dei precisi criteri per la messa in sicurezza e tutela della salute dei cittadini, allora si potrà tornare anche a frequentare i locali da gioco, sostengono gli operatori. Con analoghe misure che garantiscano visitatori e lavoratori, le quali – peraltro – sono state anche messe nere su bianco dai rappresentanti della categoria, con uno specifico elenco, puntuale e completo, fornito dalla Federazione degli operatori di gioco di Confesercenti. Eppure, il governo non la pensa allo stesso modo: e non vale neppure l'accostamento ad altri luoghi (che un tempo erano) di aggregazione, come i musei o le biblioteche, per i quali è stata comunque prevista un'apertura già a metà maggio. 
Che il criterio scelto per le riaperture sia quello dell'utilità sociale? Probabilmente sì. Ma fino a un certo punto, visto che a preoccupare il governo e i vari tecnici che stanno lavorando ai piani di recupero c'è anche la questione della tenuta psicologica dei cittadini, dopo ormai due mesi di costrizioni, e in questo senso, la riapertura delle attività di intrattenimento sarebbe senz'altro utile a riportare un po' di leggerezza tra gl italiani. In ogni caso, se questo fosse il principio che ha portato all'istituzione della “fase tre”, si tratterebbe comunque di un criterio parziale e neppure coerente con le esigenze annunciate dall'esecutivo, che nella gestione della crisi ha sempre promesso un piano di riaperture che potesse tutelare anche le attività economiche e le imprese. Ed è proprio da questo punto di vista che il piano annunciato ora dal governo appare carente, guardando ai giochi: perché si poteva fare di meglio e si poteva fare di più. Pensando al comparto dal punto di vista economico e occupazionale e, quindi, agli oltre centomila stipendi che il settore è stato in grado di garantire fino ad oggi e che non potrà più fare, senza una ripartenza celere. Il piano di ripartenza annunciato dal premier prevede un'inevitabile gradualità e una fase di convivenza con il virus, con la strategia che verrà di volta in volta modificata monitorando quotidianamente il trend dei contagi, come appare più che ragionevole e sensato. Proprio per questo, diciamolo, ci si attendeva una ripartenza dei locali da gioco insieme alle altre attività, magari attraverso una gradualità relativa alle dimensioni dei locali o comunque fissando regole rigide e un piano di controlli specifico per garantirne il rispetto. Invece si è scelto di non scegliere. Spostando avanti ogni minima ed eventuale discussione.
Del resto, c'è già chi suggerisce di fermare del tutto i locali da gioco approfittando del lockdown per chiudere per sempre il settore. Ignorando completamente ogni esigenza del paese (come l'estremo bisogno di entrate per le casse dello stato e il mantemimento dei posti di lavoro) e tutte le raccomandazioni relative al rischio di una dilagare della criminalità nella gestione degli affari post-pandemia, con la scomparsa della rete del gioco locale che rappresenterebbe una manna dal cielo per la malavita. Che potrebbe così tornare a gestire un business così gradito agli italiani, come cerca di fare da oltre 15 anni: da quando cioè lo Stato aveva iniziato a gestire il settore proprio per metterlo in sicurezza.
Purtroppo però, ancora una volta l'Italia mette in luce tutti i suoi limiti, le contraddizioni e i giochi di potere nella gestione di una cosa così seria come la Ricostruzione che si deve attuare in queste settimane. Con tutti i nodi che continuano a venire al pettine, senza che nessuno risparmi nulla, per l'occasione. Alla faccia del senso di responsabilità più volte invocato e – forse troppo generosamente – sbandierato nei numerosi proclami governativi. Ne è una prova ulteriore la scarsissima sintonia e la pressoché totale mancanza di unità di azione tra governo centrale e regioni: quella “Questione territoriale” ben nota al comparto giochi che riguarda ormai qualunque settore e condiziona fortemente anche la ripartenza post-coronavirus. Al punto che da questa settimana si delineano piani completamente diversi di regione in regione. Il Veneto riapre dal 27 aprile cimiteri e fiorai e permette la vendita da asporto a ristoranti, bar e gelaterie, i lavori di ristrutturazione sugli edifici esistenti e la possibilità di fare sport all’aperto da soli. Anche la Liguria permette ai ristoranti il takeaway e agli sportivi di allenarsi all’aperto e così via. Contrariamente a quanto disposto dal governo per il territorio nazionale. 
Nel frattempo, in questa stessa settimana viene diffuso il dato preliminare relativo al Pil del primo trimestre 2020, e non sarà un momento affatto facile per il paese, soprattutto perché gli economisti prevedono che il secondo trimestre, in Italia e nel mondo, andrà addirittura peggio. Per questo, oltre a un'attenza definizione dell'attesissimo “decreto Aprile”, da varare entro fine mese, ci si aspetterebbe qualcosa di più dal governo e da tutte le parti in causa. A partire dalle regioni, ma anche di tutti gli altri soggetti che intervengono a vario titolo sulla ripartenza. Provando davvero a esercitare un senso di responsabilità e di unità nazionale, ben sapendo che nessuno di salva da solo e per la ricostruzione del paese serve l'aiuto di tutti. Quel principio che vogliamo far valere in Europa, chiamando le altre nazioni alla condivisione e all'unità, e che dovremmo prima e soprattutto far valere in Italia. E a proposito di unità: l'unica nota positiva che si registra in questi giorni nell'industria del gioco pubblico è – una volta tanto - la reale unità di intenti e di azione dell'intera filiera. Con le sigle che rappresentato tutte le categoria che hanno redatto un manifesto comune per la ripartenza del settore. Per una definitiva presa di coscienza del problema e della situazione di estrema criticità e un concreto senso di resposabilità, che comunque non basteranno a salvare il comparto e gli oltre centomila posti di lavoro senza un'altrettanta presa di coscienza da parte del governo e di una maggiore responsabilità, a livello generale.

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