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Errare è umano, (continuare a) improvvisare è diabolico

21 dicembre 2020 - 10:20

La gestione della pandemia in Italia continua a sollevare numerose critiche: anche – e soprattutto – per la disciplina delle chiusure che appare incoerente, soprattutto sui giochi.

Scritto da Alessio Crisantemi
Errare è umano, (continuare a) improvvisare è diabolico

Diciamolo subito: chiudere le attività di gioco, nella Penisola, per contenere la diffusione del coronavirus non è affatto assurdo. Anzi, al contrario, appare del tutto ragionevole, tenendo conto della necessità di ridurre al minimo le occasioni di contagio e, quindi nella logica di contenere al minimo gli spostamenti dei cittadini, se non per attività ritenute strettamente indispensabili. O, meglio, dovremmo dire “essenziali”, visto che il criterio dichiaratamente applicato dall'esecutivo è stato quello della cosiddetta “essenzialità”, per discriminare tra chi può e chi non può continuare a operare durante queste settimane e mesi della seconda ondata della pandemia. Criterio, peraltro, che è stato grosso modo adottato anche dagli altri paesi, come la notoriamente rigorosissima Germania di Angela Merkel, che in maniera simile all'Italia ha bloccato le attività di gioco fino a metà gennaio, insieme a una serie di altre attività. 

Sta di fatto però che in un paese come la meno rigorosa Italia, a far traballare un criterio di questo tipo è, prima di tutto, la scelta di chi è chiamato a stabilire cosa si può considerare più o meno indispensabile e, soprattutto, come. In un paese in cui la politica è solita abdicare sistematicamente i propri poteri, scegliendo sempre più spesso di non decidere rispetto ai piccoli e grandi problemi, lo stesso è stato fatto - puntualmente – anche nelle varie fasi che hanno caratterizzato questa infinita pandemia, con il governo che ha creato task-force, riunito esperti, nominato commissari e convocato tavoli (sia in materia sanitaria che fiscale) per condividere decisioni e anche qualche responsabilità. Finendo con l'individuare nuovi supplenti, oltre a quelli già normalmente utilizzati, vale a dire gli enti locali: sempre più sostituti del legislatore nazionale, com'è già da tempo evidente all'industria del gioco, pensando all'annosa “questione territoriale”, che in tempi di pandemia sembra essere definitivamente esplosa, ricoprendo ambiti ben più ampi rispetto a quelli delle slot o del disturbo da gioco d'azzardo patologico. Visto che a furia di invocare a sproposito il tema della pandemia, a proposito della “ludopatia”, ci si è trovati a fare i conti con un'emergenza sanitaria vera, e tutt'altro che semplice da affrontare. Per tutti.

Solo che il governo sembra proprio averla gestita nel modo più semplice possibile, questa pandemia. Almeno per quanto riguarda le attività di gioco. Scegliendo di chiuderle, tout court. Senza preoccuparsi di tanti dettagli o delle possibili conseguenze, limitandosi soltanto (e per fortuna, almeno quello) a introdurre dei ristori per le aziende vittime delle chiusure. Peccato però che ciò che è stato fatto risulta non solo insufficiente per tamponare gli effetti devastanti di questo secondo lockdown (se non altro perché non tutte le categorie sono state incluse nei ristori, come per esempio i produttori di apparecchi, che si ritrovano senza alcun mercato), ma appare anche scarsamente motivato o comunque incoerente rispetto alle altre misure e decisioni che sono state adottate nello stesso periodo dallo stesso esecutivo. Al punto che anche il Tribunale amministrativo del Lazio, nel sostenere la linea di governo, sembra trovarsi in difficoltà, andando a interpretare un Dpcm dietro l'altro e una serie sempre più lunga di ricorsi provenienti dalla categorie vittime delle chiusure e a rischio scomparsa. E non è forse neppure un caso se, in questi giorni, il governo ha preferito abbandonare lo strumento del Dpcm ricorrendo a un più tradizionale decreto, per disporre le nuove restrizioni di fine anno, comunicando agli italiani e molti lavorati che questo Natale sarà molto meno sereno dei predenti. E, forse, anche più di quanto ci si potesse aspettare fino a qualche tempo fa. 
Ma al di là della prolungata chiusura, a scatenare la reazione degli addetti ai lavori del gioco pubblico che si trovano senza lavoro e senza fatturato ormai da troppi mesi, è la palese disparità di trattamento che diventa ogni giorno sempre più evidente, finendo con l'apparire sempre meno motivata. Considerato che altri esercizi paragonabili siano invece ancora aperti al pubblico, anche di fronte all'evidenza di una sicurezza che è stata sempre garantita nelle sale da gioco, durante la fase della precedente riapertura, con le misure di contenimento adottate rigorosamente dagli addetti ai lavori che hanno garantito sia i dipendenti che gli avventori di questi locali. Eppure, mentre per bar, ristoranti e altri locali si continua a parlare di orari di funzionamento, di giorni di funzionamento o di restrizioni a zone, per il gioco non si discute e basta. In nessun modo. E già tanto potrebbe risultare sufficiente a dimostrare una discriminazione, e una potenziale incoerenza, visto che lo stesso governo che introduce delle zone “colorate” per distinguere tra le restrizioni da adottare, non utilizza lo stesso principio anche per disciplinare l'apertura dei locali da gioco, chiudendoli ovunque e basta. Neppure la presunta motivazione “etica” potrebbe risultare sufficiente a inibire le attività di gioco, come è stato fatto nella Penisola, visto che non tutto il gioco è stato interrotto e si continua a giocare in alcune modalità, come quella online o attraverso le lotterie. Insomma, se il criterio è da ritenere legittimo o meno, non spetta certo a noi stabilirlo: quel che è certo, tuttavia, è che appare confuso e per questo va chiarito. Come è chiamato a fare nuovamente il Tar del Lazio, di fronte al proliferare di istanze di revoca della sospensione del gioco decisa tramite Dpcm, che continuano ad arrivare ai giudici capitolini da parte degli addetti ai lavori, sotto il principio dell'autotutela. Con le quali ogni singola attività chiede al Governo di revocare lo stop alle attività del comparto, proprio sulla base di "macroscopiche illegittimità e profili discriminatori per assenza di evidenze scientifiche sul rischio di contagio e sui pericoli per la diffusione del virus negli ambienti in questione". 
Anche se il governo, sul gioco, ha deciso di non decidere, optando per la chiusura totale e senza alcuna valutazione di sorta da quando la curva di contagi è tornata a salire, adesso potrebbe essere costretto a preoccuparsi anche di questa materia: tenendo anche conto che nello stesso iter avviato presso il tribunale capitolino, si potrebbe inserire anche la Corte dei Conti, alla quale sono state notificate le stesse istanze provenienti dagli operatori, per valutare anche la possibilità di un danno erariale che si potrebbe profilare nel caso in cui le chiusure dovessero essere ritenute illegittime, per via delle (ingenti) minori entrate nelle casse dello Stato provocate dallo stop al gioco. E se il governo continuerà a tacere, ignorando le istanze della filiera (e le esigenze delle decine di migliaia dei suoi lavoratori), toccherà al Tar svolgere ancora una volta il ruolo di supplente (al più tardi, il 13 gennaio). Tanto per cambiare.
 
 

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