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Dal Riordino alla Ricostruzione, la questione territoriale diventa nazionale

15 aprile 2020 - 08:13

Tra le anomalie italiane emerse con l'emergenza provocata dal coronavirus c'è quella della Questione territoriale che non riguarda solo i giochi: un'occasione per il riordino.

Scritto da Alessio Crisantemi
Dal Riordino alla Ricostruzione, la questione territoriale diventa nazionale

 

Se c'è una cosa che emersa chiaramente durante queste lunghissime settimane di emergenza provocata dalla pandemia Covid-19 è il conflitto tra Stato e Regioni e quella sottile (e neanche troppo) linea che divide il principio di sussidiarietà dall'indipendentismo. Soprattutto per quanto riguarda la gestione della salute, dove gli Enti hanno una sostanziale autonomia. Creando – molto spesso – diversi grattacapi al governo centrale, che nel disciplinare su tale materia finisce col ritrovarsi in difficoltà, dovendo passare per una concertazione che a volte risulta difficile, soprattutto quando c'è differenza di appartenenenza politica (e, quindi, di pensiero) tra la maggioranza che guida il paese e il governo di una determinata regione. Un fenomeno, questo, che ben conoscono gli addetti ai lavori del gioco pubblico e che avevamo battezzato, su queste pagine, come “Questione territoriale”. Un qualcosa che esiste ormai dal 2011, da quando cioè la provincia autonoma di Bolzano fece da apripista nel contrastare il ruolo dell'esecutivo nella regolamentazione del gioco. Una materia che, seppure indirettamente, ha a che fare proprio con la salute, dove gli enti locali possono dire la loro.

I PRINCIPI - Sul fatto che sia giusto o sbagliato (nel senso di utile o meno per il paese) adottare questo tipo di gestione della salute, si è detto e scritto molto in questi anni e non sta certo a noi esprimerci rispetto a dei principi o valori costituzionali. Anche su quelli figli di riforme più recenti di alcuni articoli della Carta. Ciò che evidente, tuttavia, e sotto gli occhi di tutti, è che una situazione di questo tipo provoca notevoli difficoltà operative e complicazioni che, nel continuo marasma politico in cui si trova da anni il nostro paese - alla ricerca continua di una maggioranza di governo che possa apparire stabile - finiscono col provocare una serie di conflitti. Dando luogo anche a uno scarico di responsabilità, quando si tratta di gestire situazioni critiche. Come sta accadendo in questi giorni, con il paese alle prese con una pandemia globale, che ha provocato un sovraccarico del sistema sanitario nazionale e locale di fronte al quale, alcune regioni, hanno reagito come potevano (o come sapevano). Sbagliando, in qualche caso, e commettendo degli errori che potrebbero risultare anche gravi, come ora dovrà dimostrare la magistratura. Non solo. Nell'eterno conflitto tra Stato e Regioni, a uscirne confusi sono anche e soprattutto i cittadini. Come stiamo osservando in queste ore con gli italiani che si chiedono se le ordinanze locali emesse per il contenimento del virus valgono ancora, oppure se adesso prevalgono le limitazioni decise dal Governo per l’emergenza. La sera del 3 aprile, in effetti, si era parlato di mantenere per altri dieci giorni i provvedimenti più restrittivi già adottati dalle Regioni. Anche se appena il 25 marzo scorso, il governo aveva parlato di uniformità e di coordinamento, quando era stato emanato il Dl 19/2020 che disciplinava le decisioni e cambiato le sanzioni.

Come scrive in un articolo dedicato IlSole24ore, con il dilagare dei contagi che ha mandato in crisi la rete ospedaliera - che negli ultimi vent’anni ha subìto chiusure e tagli di personale e ora non ha sufficienti posti (soprattutto in terapia intensiva) – è esplosa una crisi nella crisi. Sì, perché la materia rientra fra le competenze delle Regioni, così i governatori hanno capito che avrebbero rischiato batoste elettorali future e forse anche avvisi di garanzia da qualche Procura. Da qui la frenata di molte autorità locali, che si sono fatte molto più prudenti. Addirittura, più prudenti del Governo. E hanno sfruttato il potere di emettere ordinanze urgenti per tutelare igiene e sanità pubblica in caso di necessità (legge 833/1978, articolo 32, comma 3). Ecco perché in molti casi abbiamo divieti locali più restrittivi di quelli nazionali ed è difficile stare dietro alla loro evoluzione.

LA SITUAZIONE NEL GIOCO - Proprio come avvenuto nella regolamentazione del gioco pubblico: dove, l'eccesso di rigore di alcuni enti locali ha iniziato a provocare problemi non banali alla comunità locale, sia nella gestione dell'ordine pubblico ma anche sul tessuto occupazionale e quindi sociale, provocando la crisi di molte aziende, del gioco o del suo indotto, quindi nella rete dei pubblici esercizi. Portando qualche amministrazione a fare marcia indietro o comunque ad ammorbidire le proprie posizioni. Rendendosi spesso conto che quell'eccesso di rigore applicato al gioco, avrebbe potuto spalancare una crisi economica locale della quale farebbero tutti volentieri a meno. Ma al di là di questi aspetti specifici, cioè che emerge guardando il tema del gioco come quello dell'epidemia, è che il risultato di questa gestione parziale dello Stato è il rischio di una paralisi decisionale. In una situazione del genere, infatti, diventa difficile anche soltanto riuscire a prendere decisioni. Si guardi all'emergenza da coronavirus, dove il Governo ha imposto la maggior parte dei divieti con una serie di decreti del presidente del Consiglio dei ministri (i famigerati Dpcm): un tipo di provvedimento previsto già dal primo decreto legge sull’emergenza coronavirus (il Dl 6/2020, del 23 febbraio) che richiede di sentire anche le Regioni. Se i governatori non sono d’accordo, si rischia di far trascorrere in discussioni tempo prezioso, nonostante si stia parlando di provvedimenti urgenti. Questo spiega, per esempio, il motivo per cui il divieto di uscire dal territorio del Comune in cui ci si trova è stato imposto per la prima volta il 22 marzo da un’ordinanza del ministro della Salute. Un atto che non richiede di sentire le Regioni ed è vincolante fino a che non viene superato da un Dpcm o da una norma di rango alcora superiore (legge o decreto legge). Solo dopo è stato possibile emanare un Dpcm, entrato in vigore solo il giorno successivo che, oltre a confermare questo divieto di spostamento, ha disciplinato l’elenco delle attività che potevano restare aperte. Altra materia particolarmente spinosa, visto che il 21 marzo il Piemonte e la Lombardia avevano emanato proprie ordinanze che chiudevano, per esempio, anche gli studi professionali, non toccati invece dalle decisioni del Governo. Stesso discorso per quanto riguarda le ordinanze locali che vietavano espressamente di uscire di casa anche per fare jogging nelle vicinanze, come invece consentivano le norme nazionali e le interpretazioni che ne dava il ministero dell’Interno.

LA NECESSITA' DI UN RIORDINO - A questo punto, la parola d'ordine per risolvere la situazione, nel gioco come nella gestione dell'epidemia (e sella sanità in generale) diventa una sola: il riordino. Nella gestione dell'emergenza si è tentato di riordinare la situazione mettendo una toppa attraverso gli articoli 2 e 3 del Dl 19/2020, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale la sera del 25 marzo (oltre 24 ore dopo la seduta del Consiglio dei ministri in cui era stato approvato, probabilmente proprio a causa delle frizioni con gli enti locali). Dopo che non era più chiaro a nessuno quali norme rimanevano in vigore e quali risultavano invece superate. Nel provvedimento del 25 marzo, in sostanza, l’articolo 3 ha stabilito che prevalgono i Dpcm. Quindi, prevale la parola del governo. Ma le Regioni possono comunque prendere decisioni più restrittive, per il proprio territorio di competenza, se ci sono “situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario verificatesi nel loro territorio o in una parte di esso”. Mantenendosi però “esclusivamente nell’ambito delle attività di loro competenza e senza incisione delle attività produttive e di quelle di rilevanza strategica per l’economia nazionale”. Ovvero, esattamente lo stesso principio che era stato introdotto, per quanto riguarda il gioco pubblico, nella famosa Intesa siglata tra il precedente “governo Renzi” nel 2007, dove venivano stabiliti principi analoghi. Di cui adesso, probabilmente, ci si rende conto di quanto fossero validi oltre legittimi. Non a caso, quella stessa Intesa, pur non essendo stato formalmente convertita in legge a causa delle troppe beghe politiche di quel momento, è stata comunque più volte richiamata in causa, sia dai Tribunali – chiamati ad esprimersi sulla materia – che dal Viminale, attraverso una circolare interpretativa nella quale si informavano i prefetti della validità di alcuni criteri inclusi proprio in quella intesa.
In ogni caso, guardando alle ultime leggi sull'emergenza coronavirus, è stato deciso che le rispettive ordinanze regionali valgono solo fino al momento in cui viene adottato un Dpcm che riguardi quelle situazioni locali. E che, pare di capire, possa anche smentire la Regione, riportando in vigore le misure nazionali precedenti al Dpcm stesso o comunque stabilendone di nuove meno restrittive di quelle introdotte dall’ordinanza regionale. Non solo. Il Dl 19/2020 è ancora più netto nei confronti dei Comuni. Stabilendo, all’articolo 3, comma 2, che: “I sindaci non possono adottare, a pena di inefficacia, ordinanze contingibili e urgenti dirette a fronteggiare l’emergenza in contrasto con le misure statali, né eccedendo i limiti di oggetto cui al comma 1”. Altro motivo di riflessione in ottica di gioco pubblico e regolamentazione locale.
 
LA FUGA DEGLI ENTI LOCALI - Ma sia nella sanità che nel gioco, alle preoccupazioni dei governatori sulla situazione relativa al proprio territorio, si sommano le tattiche dei partiti, con i contrasti politici che non sono destinati a terminare. Così anche il Dl 19/2020, nel caso del coronavirus, rischia di risultare sterile. Già il primo aprile, per esempio, il governatore della Lombardia, Attilio Fontana, ha comunicato ufficialmente ai Comuni lombardi che avrebbe confermato le sue precedenti ordinanze anche dopo la loro scadenza. L’articolo 2, comma 3 del Dl stabilisce che esse possono valere solo fino al 5 aprile (10 giorni dopo l’entrata in vigore del Dl, avvenuta il 26 marzo), ma Fontana ha fatto una nuova ordinanza uguale a quella di prima. Ovviamente motivandola con gravi situazioni in qualche modo sopravvenute, così da rispettare almeno formalmente i limiti di competenza introdotti dal Dl 19/2020. Lo stesso faranno gli altri governatori, come è emerso la sera del 3 aprile dal vertice in videoconferenza al quale li ha convocati il premier Giuseppe Conte. Ci si è dati un’altra decina di giorni per creare una sorta di cabina di regia che appiani i contrasti. Se non ci si riuscisse, lo scontro potrebbe teoricamente arrivare al punto in cui Conte firmi Dpcm che smentiscono le ordinanze regionali. Anche se, così facendo, tutti rischierebbero di perdere (ulteriormente) credibilità; cosa che nessuno può davvero permettersi in un periodo di emergenza nazionale. 
Idem per quanto riguarda le ordinanze comunali, dove il divieto di andare in contrasto con i provvedimenti statali è netto solo in teoria. Lo ha dimostrato l’ondivaga vicenda del sì alle passeggiate con i bambini: dopo l’apertura messa per iscritto in una circolare dal capo di gabinetto della ministra dell’Interno, la pioggia di critiche da parte di governatori e sindaci ha costretto il Governo a una sostanziale retromarcia. D’altra parte, se è vero che i sindaci non possono contraddire le norme nazionali, nel caso delle passeggiate con i bambini non ce n’era una che le autorizzasse esplicitamente, ma solo una circolare interpretativa. Che, come tale, non è vincolante per tutti. 
 
LA VIA DI USCITA - In questo clima di incertezza generale, quindi, l'unica vera regola da applicare rimane il buonsenso. Vale per l'emergenza sanitaria provocata dal virus, ma vale anche per la regolamentazione del gioco: dove ormai da tempi assistiamo al revirement di alcune regioni, che proprio in virtà del mero bounsenso, hanno deciso di rivedere le proprie norme, una volta capiti fino in fondo gli effetti di certe restrizioni: sterili dal punto di vista della tutela e devastanti in termini economici e occupazionali.
L'unica certezza, al momento, per quanto riguarda entrambi i fronti è che la soluzione a questo conflitto può arrivare soltanto attraverso un riordino. Ovvero, una riforma degna di tale nome che consenta di ridefinire priorità, responsabilità e limiti. Nel gioco, gli ultimi governi lo avevao promesso già più volte, senza mai attuarlo. E chissà che adesso che la Questione territoriale è divenuta davvero una questione nazionale, non si possa arrivare a soluzioni generali che impattino anche il gioco pubblico. Rispetto al quale, la necessità di riordino, nel frattempo, si è trasformata in quella di una vera e propria Ricostruzione, analoga a quella che ha rimesso in sesto il paese nel dopoguerra, tenendo conto dei sopraggiunti effetti critici provocati dall'emergenza coronavirus e da un prolungato lockdown che annuncia molteplici vittime. In tutta la Penisola, e non solo in alcuni territori.

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