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L'insostenibile leggerezza dell'essere... proibizionista

27 marzo 2017 - 10:32

Il gioco pubblico continua ad essere vittima di errori di valutazione, soprattutto in chiave politica: in una serie di “parole fraintese” che ne causano la deregulation.

Scritto da Alessio Crisantemi
L'insostenibile leggerezza dell'essere... proibizionista

 

Quando si parla di gioco pubblico e della sua regolamentazione siamo ormai abituati a sentirne di tutti i colori, in un continuo esercizio di dialettica che sarà pure alla base di ogni sistema democratico, ma che diventa quanto mai deleterio quando alle base delle considerazioni politiche vi sono dei presupposti erronei o visioni distorte, condizionate da suggestioni di varia natura. In un insieme di “parole fraintese”, che richiamano alla mente il celebre romanzo di Milan Kundera (L'insostenibile leggerezza dell'essere), derivato dalla separazione parmenidea tra il non essere e l’essere e, quindi, dalla disgiunzione “o è o non è”, rispetto alla quale non è possibile pensare o dire una terza cosa.

Esattamente come dovrebbe essere (o, volendo, non essere) parlando di gioco pubblico: se è vero, come è vero, che la regolamentazione di questo comparto nasce(va) proprio dalle esigenze di ordine pubblico e di tutela della salute e non solo di quelle di cassa manifestate dallo Stato. Regolamentare per tutelare: mentre proibire significa sbagliare. Un assioma condiviso da tutti, sulla carta. Salvo poi ritrovarsi a fare i conti con una serie di norme di carattere locale di stampo prettamente proibizionista, sostenute da discorsi e giustificazioni di stessa matrice, nonostante si voglia rifiutare l'etichetta.
Eppure, come detto, i principi ispiratori della regolamentazione del gioco pubblico sono sacrosanti e inevitabilmente condivisibili. Come ricordato qualche tempo fa dal legale Geronimo Cardia, in occasione di un suo intervento nella Fondazione forense bolognese proprio sul tema del proibizionismo nei confronti del gioco e della “Questione territoriale”, nella regolamentazione del gioco pubblico entrano in ballo alcuni principi costituzionali che risultano imprescindibili e, proprio perché tali, inopinabili. Come il diritto alla salute, il diritto all'impresa, al lavoro, al risparmio, oltre alle questioni di ordine pubblico e dell'esigenze erariali. Principi rispetto ai quali non si può essere favorevoli o contrari, poiché tutti non possono che essere d'accordo. Ciò significa, però, che il gioco deve essere offerto in maniera idonea a salvaguardare tali principi: cioè tutelando la salute e il risparmio dei cittadini, l'ordine pubblico, oltre a garantire entrate alle casse dello Stato e la redditività delle imprese che investono in un bene statale. Come pure il posto di lavoro di quei cittadini impiegati in quelle stesse aziende, che godono (fino a prova contraria) degli stessi diritti di chi lavora in altri settori dell'economia moralmente accettati e meno esposti a critiche o considerazioni etiche (o speculative). E' quindi evidente che il problema è unicamente quello di fare in modo che tali principi siano davvero rispettati e che i diritti che abbiamo appena elencati vengano effettivamente difesi ed esercitati. E dove questo non avviene, è necessario un intervento dello Stato, a qualunque livello e con qualunque strumento (anche, perché no, di carattere locale), purché il risultato sia il raggiungimento di quegli scopi, non la loro negazione. Pertanto, la soluzione al problema della regolamentazione del gioco pubblico e della Questione territoriale non può essere, per definizione, il divieto assoluto (o pressoché tale, come avviene in vari territori) perché ciò prescinderebbe dal mantenimento di praticamente tutti i principi sopra esposti. Compresa la tutela della salute e del risparmio che, in molti, ritengono di poter salvaguardare attraverso l'espulsione del gioco, ma che verrebbero, al contrario, ulteriormente minati a causa del dilagare delle forme di illegalità che andrebbero a rimpiazzare l'attuale offerta di Stato.
Per queste ragioni, la via d'uscita non può che passare per una soluzione di sistema, che sappia contemplare tutte queste esigenze, tenendo conto del punto di vista dei vari soggetti coinvolti, a livello politico e istituzionale. Da qui la scelta (giusta quanto inevitabile) del Legislatore di affidare la decisione alla Conferenza Unificata e la colpa grande di non averla ancora raggiunta. Mantenendo tutto esattamente come prima a livello legislativo centrale, lasciando però degenerare le situazioni a livello territoriale, con il susseguirsi di provvedimenti espulsivi del gioco legale e le inevitabili ricadute a livello pubblico e sociale e non solo di economie aziendali. In Liguria, dove il sistema sta per saltare, si è scatenato nuovamente il dibattito con tutte le distorsioni del caso: e lo stesso sta per avvenire in Piemonte e in altri territori in cui il legislatore regionale ha optato per il pugno di ferro conto il gioco, sia pure in presunta difesa di quegli stessi valori costituzionali. Ma il proibizionismo non paga, mai. Ed è un fatto, non un opinione. Eppure, si continua a invocare la soluzione capitale della scomparsa del gioco per risolvere tutti i problemi, sia pure mascherandola in altre forme solo apparentemente lontane dall'essere proibizioniste.
Certo, la soluzione non è facile da trovare e la sua ricerca, per lo Stato, è resa ancor più difficile dal clima di tensione esasperata che si è creato attorno al fenomeno. Ma la “pesantezza” di questo onere, per quanto terribile possa apparire per il Legislatore, è pur sempre preferibile alla “leggerezza” con cui ci si affida a provvedimenti parziali: sterili quando non addirittura dannosi, e non solo per le imprese. Con leggi, regolamenti e provvedimenti vari che vengono emanati, sospesi, riscritti e a volte annullati, senza mai raggiungere il risultato che si erano prefissati.

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