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Casinò, un settore da regolamentare

05 novembre 2022 - 11:11

Anche i casinò attendono il loro riordino, sull'esempio delle norme varate negli altri Paesi europei.

Photo by Vardan Papikyan on Unsplash

Photo by Vardan Papikyan on Unsplash

Torno a bomba su un argomento su cui ho già scritto e che mi sta particolarmente a cuore. Un tema parecchio spinoso e, allo stesso tempo, un problema che presenta aspetti complicati, per non dire  ostici, che rendono irto di insidie e di difficoltà un eventuale percorso di sua soluzione.
Il nostro Paese ha scelto di non regolamentare il settore del gioco d’azzardo. Si tratta di una decisione che affonda le proprie radici in tempi lontani, in pratica quando sono state autorizzate le aperture delle quattro case da gioco che ancora oggi operano sul territorio nazionale.

Senza approfondire le questioni di carattere giuridico, resta il fatto che in Italia non esiste una legge nazionale che regolamenti il gioco d’azzardo. Si tratta di un unicum che ci differenzia dalla maggior parte dei Paesi europei, in parte anche dal resto del mondo. Ci differenzia, a mio parere, in modo negativo. Mentre il settore del gioco che noi addetti ai lavori definiamo “pubblico”, per intenderci, videolottery, lotterie istantanee, scommesse sportive e gioco online (pur in attesa di un riordino) seguono norme dettate da provvedimenti legislativi nazionali, i casinò continuano a operare nel rispetto di autorizzazioni emanate a livello locale, vivendo quindi in una sorta di limbo che spesso rischia di farle passare, ai più, per attività border line.

Non è cosi, ovviamente. I casinò italiani operano nel rispetto di tutte le leggi alle quali si riferiscono tutte le altre aziende, ma manca una sorta di legittimità a gestire questo particolare business. Nemmeno nessuna legge nazionale, come poco sopra ho accennato, ne regolamenta con chiarezza limiti e ambiti.
La prima conseguenza è l’assoluta impossibilità di ampliare il mercato, inevitabilmente immobile, negando nuove aperture, quindi impedendo anche agli attuali gestori di trovare sbocchi operativi ed economici sul territorio nazionale.
Sono stati innumerevoli i tentativi di portare in Parlamento progetti di legge che modificassero la situazione attuale che però non sono mai stati approvati. Da più parti si è addossata la responsabilità di questo inciampo alla capacità dei casinò in attività di fare lobby impedendo la nascita di una nuova concorrenza.
Da addetto ai lavori quale mi posso definire, seppure nel recente passato, sgombro subito il campo da possibili equivoci. Ai concessionari e ai gestori delle case da gioco in attività sicuramente non piaceva, forse non piace tuttora, l’opzione di doversi confrontare con nuove realtà, ma ho qualche dubbio che il peso specifico che rappresentavano avesse la capacità di influenzare le scelte del legislatore. Resta il fatto che ci troviamo in presenza di un’anomalia che a mio parere va sanata.

Quanto sopra per diversi motivi, tra i quali ottenere un riconoscimento delle varie professionalità, in particolare quelle con profili specifici del settore - che consentirebbe ad esempio ai croupier di avere accesso al mercato del lavoro europeo - creare nuova occupazione e poi promuovere su scala nazionale un’offerta turistica sicuramente attraente.
A mio parere nemmeno la paura di una nuova concorrenza può giustificare questa grave lacuna del legislatore. Le ricette, negli oltre cento progetti di legge arrivati in Parlamento, ahimè tutti abortiti, sono le più disparate quindi non mancano certo gli spunti per mettere mano a un nuovo provvedimento che tenga conto anche delle mutate condizioni del mercato.

Non a caso ho fatto cenno alla funzione di promozione turistica che una nuova offerta di gioco d’azzardo sul territorio potrebbe generare, perché dal mio personale punto di vista, le aperture dei nuovi casinò dovrebbero essere limitate proprio ad aree a specifica valenza turistica, evitando le metropoli o le grandi aree sub urbane.
Insomma, un modello che eviti di guastare i delicati equilibri oggi esistenti, direi solo sulla carta, perché il volume di affari del gioco in Italia è talmente importante da non poter essere influenzato da uno scenario come quello che ho ipotizzato.
Proventi, al netto dei costi operativi e di gestione, da destinare in parti eque alle Regioni e allo Stato. Una follia, forse, ma mi piace pensare che prima o poi questa totale assenza di visione sul futuro che caratterizza il nostro Paese possa finalmente cedere il passo a un afflato di innovazione. Perché no?

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