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Gioco pubblico: la lezione del Regno Unito e quella di Agcom

29 aprile 2019 - 08:35

Dal divieto totale di pubblicità del nostro paese, rivelatosi inattuabile, alle revisioni della regolamentazione in Uk: esempi da cui imparare per governare seriamente i giochi.

Scritto da Alessio Crisantemi
Gioco pubblico: la lezione del Regno Unito e quella di Agcom

Imparare dagli errori. E' quello che dovrebbe fare l'industria del gioco pubblico, traendo spunto dalle esperienze, positive e negative, e guardandosi sempre più attorno, anche oltre confine. Ma è quello che dovrebbe fare, al tempo stesso, lo Stato e, quindi, il governo. Ora che il gioco ha assunto una dimensione più che mai globale e adesso che l'Italia non è più un punto di riferimento per la regolamentazione e livello internazionale: ma neppure l'unico paese a doversi scontrare con  movimenti di protesta e richieste di abolizione del comparto. Pur rimanendo, comunque, uno dei mercati più sviluppati in Europa e nel mondo. In un momento così altamente complesso a livello politico ed economico, sia a livello nazionale, ma anche e soprattutto a livello comunitario, l'Italia, anche nel gioco, deve mantenere dritta la barra: evitando si cedere all'improvvisazione, perché un altro passo falso, in questo momento, potrebbe essere fatale.

Una raccomandazione di cui dovrebbe far tesoro l'Esecutivo, dicevamo, anche e soprattutto alla luce del parere appena formulato dall'Autorità garante delle comunicazioni sull'applicazione del divieto totale di pubblicità dei giochi disposto dal Decreto Dignità, rispetto al quale ha appena rilasciato le Linee guida che ne interpretano i limiti e gli ambiti di applicazione. Dopo un lavoro durato oltre sei mesi e al termine di una lunga consultazione pubblica, Agcom è riuscita a interpretare le disposizioni governative - molto più vicine a un diktat che a una forma di regolamentazione – basandosi si alcuni principi fondamentali di un paese democratico e inserito nel contesto dell'Unione Europea. Valutando, cioè, non soltanto la coerenza rispetto alle leggi statali già vigenti in materia di gioco pubblico, ma anche quelle comunitarie e libera concorrenza, oltre ai principi di proporzionalità, anche questi dettati dalla nostra splendida (seppur vituperata) Costituzione. Inevitabile quindi il ridimensionamento di quello che veniva annunciato come un provvedimento di “abolizione” delle pubblicità a una mera riduzione degli spazi e delle possibilità di promozione dei giochi con vincita in denaro. Ben lontano da un divieto totale, com'era del resto inevitabile. Rimarcando, soprattutto, il valore informativo delle comunicazioni di gioco – sotto determinati criteri – quando permettono di distinguere l'offerta legale da quella illecita e, soprattutto, quando permettono agli utenti di capire. Non solo i funzionamenti di un determinato prodotto di gioco, ma anche i rischi. Aspetti evidentemente oscurati e impediti da un divieto totale di pubblicità e comunicazione che nella formulazione prevista dal governo appariva fin da subito inconcepibile prima ancora che inattuabile.
A imparare dagli errori, tuttavia, insieme allo Stato, dovrebbe essere anche la stessa industria del gioco. Visto che a portare all'esasperazione i movimenti di protesta anti-gioco, che hanno poi trovato sfogo nella componente a 5 Stelle dell'attuale governo, è stata anche la sovraesposizione mediatica dell'offerta di gioco con vincita in denaro, caratterizzata prevalentemente dalle réclame negli stadi e in televisione di scommesse e casinò online collegate ai principali eventi sportivi. Con un effetto “bombardamento” e un martellamento continuo durante le partite di calcio che era finito con lo stancare anche gli stessi giocatori. Anche a causa di alcuni messaggi pubblicitari (la stretta minoranza, per fortuna, almeno ai giorni nostri) qualitativamente discutibili se non addirittura scadenti. Di certo una limitazione spontanea e preventiva da parte delle stesse società di gioco, avrebbe potuto impedire la deriva proibizionista raggiunta dal governo e l'imposizione di quel diktat senz'altro assurdo, ma comunque figlio di un malcontento: ideologico e spesso strumentale, ma comunque esistente e per tale ragione, da prendere in considerazione.
Gli operatori del gioco pubblico, tra l'altro, farebbero bene anche a guardarsi più attorno, scrutando ogni tanto anche oltre confine, dove esperienze simili e realtà analoghe, potrebbero dare ispirazioni a comportamenti e stili migliorativi della propria realtà. Ma anche in questo caso, la stessa “buona pratica” è da consigliare all'Esecutivo, che prima di adottare provvedimenti così impattanti sulla realtà economica e sociale del nostro paese, potrebbe prendere spunto da realtà simili allo nostra, e magari anche più “evolute”, sotto tutti i punti di vista. Si pensi per esempio al Regno Unito, dove accanto alle “cattive pratiche” della Brexit, continuano ad essere attuate politiche di regolamentazione sul mercato del gioco, in un contesto ancor più evoluto rispetto a quello italiano. Anche qui, va detto, il governo ha dovuto cedere ad alcune pressioni crescenti da parte dell'opinione pubblica, intervenendo per esempio sui limiti di puntata delle Fobt (analoghe alle nostre Vlt), ma trattando la questione della pubblicità, come pure quella dei limiti più in generale da porre all'industria, in maniera più ampia e completa rispetto al nostro paese. Avviando, per esempio, delle consultazioni preventive attraverso l'autorità competente (la Gambling Commission), e non successive alla legge, come ha dovuto fare l'Agcom da noi, per provare a interpretare una legge assai difficile da attuare. E non solo da capire. In Gran Bretagna, però, a differenza dell'Italia, non solo il regolatore del comparto rappresenta un ente autorevole e in grado di esercitare appieno i propri poteri, in perfetta coerenza e autonomia con i principi del diritto nazionale (a differenza di quanto appare da noi, con i Monopoli di Stato, e addirittura Sogei, sempre più esautorati dai propri poteri, se non addirittura considerati “di parte”, specie nell'attuale legislatura), ma anche la industria viene considerata realmente come tale, senza tanti pregiudizi, alla pari degli altri comparti economici e produttivi del paese. Ma è pur vero che è la stessa industria a comportarsi davvero “da industria”, preoccupandosi seriamente dei propri profili di responsabilità sociale e degli impatti della sua attività sulla comunità, ma anche guardando al proprio futuro. Provando a garantirsi una piena sostenibilità, soprattutto in questi momenti difficili in cui i venti di protesta soffiamo in maniera più intensa e pronunciata. Da qui la decisione di alcuni bookmaker e dei grandi media di rinunciare a degli spazi pubblicitari, per dare un segnale alla politica e all'opinione pubblica. Tutelando al tempo stesso i propri interessi, che sarebbero decisamente pregiudicati nel caso in cui dovessero essere abolite le possibilità di promuovere il gioco, come accaduto in Italia. E i nostri operatori sanno bene, perché hanno potuto fare i conti in questi mesi, quali sono i costi di un oscuramento totale della loro attività.
Per questo il Regno Unito continua (e deve continuare) a rappresentare un esempio, per l'Italia e il resto del mondo, in materia di gioco. Mentre l'industria del nostro paese deve provare a raccogliere i cocci di un comparto che sta andando in frantumi, provando a cogliere quello che di buono si può ricavare dal parere di Agcom e provando a immaginare un nuovo futuro. Con l'auspicio che il governo, dal canto proprio, possa recuperare il tempo perduto e agli errori commessi, iniziando a preoccuparsi dei problemi reali che riguardano il comparto e che impattano sui cittadini, come la questione territoriale, ben più rilevante della pubblicità. Visto che, anche in questo caso, le conseguenze delle leggi regionali, analogamente alle restrizioni sulle comunicazioni, rischiano di ridare slancio all'offerta illegale. Ora che la delega ai giochi è stata assegnata, il Riordino può davvero essere affrontato, dopo che è stato annunciato, ma non ancora attuato.

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