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Il fallimento dello Stato sui giochi e l'urgenza del Riordino

11 marzo 2019 - 10:03

Non per gli esteri e neppure per gli italiani: è il risultato delle politiche perseguite dal governo sui giochi. E non solo.

Scritto da Alessio Crisantemi
Il fallimento dello Stato sui giochi e l'urgenza del Riordino

 

C'era un tempo in cui si diceva, dietrologicamente parlando, che lo Stato italiano – magari attraverso il governo del momento – era solito legiferare, in materia di gioco pubblico, in favore di una presunta lobby e degli interessi di alcune specifiche società. Individuando una certa unidirezionalità nei provvedimenti adottati nel corso del tempo, che sembravano più o meno sistematicamente andare in direzione contraria rispetto alle necessità delle piccole e medie imprese italiane. Soprattutto per quelle del ramo degli apparecchi da intrattenimento. Mostrandosi invece più inclini a quelle dei grandi gruppi e, spesso, di società internazionali che, anno dopo anno, sono riuscite a insediarsi, e con successo, nel nostro paese. Una convinzione piuttosto diffusa nel settore, che ha visto per anni – e in parte ancora oggi -  diversi addetti ai lavori gridare allo scandalo di fronte all'assunzione di alcune decisioni politiche riferite al comparto giochi, sempre dettate da esigenze di cassa. Adesso, però, la musica è cambiata.

Con l'instaurazione dell'attuale legislatura tutto è cambiato: nel gioco e non solo, com'è evidente a tutti. Non perché le misure adottate oggi abbiamo invertito la rotta, favorendo cioè le piccole imprese a dispetto delle grandi o delle estere: bensì, al contrario, perché la nuova linea seguita dall'attuale Esecutivo nei confronti del gioco pubblico sembra essere davvero “nuova” e in grado di scontentare tutti. Grandi e piccoli, italiani e non. Ciò che è peggio, tuttavia, è che tutto questo non accade neppure in nome di un consenso, come sembra accadere per il resto delle decisioni politiche (come del resto rientra tra i principali obiettivi di una compagine populista, per definizione), visto che agli italiani, delle politiche sul gioco, non è mai interessato nulla, o poco più. Per un'emergenza “gioco d'azzardo”, raccontata negli anni da media e politica, senza mai attecchire più di tanto nell'opinione pubblica, come hanno dimostrato le sempre esigue manifestazioni di piazza che si è provato a organizzare più di una volta, sempre senza successo. Tuttavia, nessuno può dirsi contrario di fronte agli annunci di un governo che dica di voler tutelare le famiglie e i lavoratori e di difendere la loro salute: ragion per cui, una misura contro il gioco non può trovare detrattori, se non all'interno dell'industria o di quei pochi che possono prendersi la briga di studiare il fenomeno, da un punto di vista politico-economico o anche meramente statistico. Praticamente, la netta minoranza del paese.
Ed è proprio sulla costruzione di questo inganno che si sta demolendo un'intera industria e un vero e proprio asset del nostro paese, faticosamente costruito nel tempo e fino a qualche anno fa ritenuto un modello di sviluppo da parte degli altri paesi d'Europa e del mondo. Sì, perché oltre a creare occupazione e una notevole quantità di (preziose) entrate erariali, la costruzione dell'industria del gioco pubblico ha permesso, nel tempo, di mettere in sicurezza un settore che fino al 2003 era preda di una totale deregulation e spesso in mano della criminalità, facendo emergere un'immensa economia sommersa, bonificando i territori e creando posti di lavori. Merce sempre più rara, di questi tempi. Eppure, nonostante tutto ciò, lo Stato sembra proprio sul punto di voler tornare indietro, rinunciando a tutti questi benefici ottenuti nel tempo, con il rischio di invertire clamorosamente la rotta, in termini di presidio di legalità e di sicurezza. In quello che si configurerebbe come un autentico suicidio di Stato. Assurdo quanto vogliamo, ma tant'è. 
Del resto, guardandosi attorno, appare sempre più evidente che la posizione assunta dal governo nei confronti del gioco pubblico sembra oggi più coerente e simile a quella riservata ad altri comparti (non a tutti, però), con decisioni prese su questo o quel settore industriale dettate per lo più da assunti pseudo-ideologici, raramente approfonditi e quasi mai analizzati nei dettagli. E' evidente a tutti ciò che sta accadendo nei confronti del Tav dove, anche qui, la decisione più probabile che il governo potrebbe adottare, tra le varie ipotizzate finora, sembra avere l'unica certezza di riuscire a scontentare tutti. Andando, anche qui, in direzione contraria sia alle esigenze delle piccole o grandi industrie del nostro paese, ma anche contro a quelle delle società estere impegnate nella realizzazione di un'opera della quale ogni giorno che passa scopriamo di saperne sempre di meno, invece di essere più informati. Al punto che oggi non sappiamo più neppure se gli scavi siano davvero iniziati o meno. Per un altro autentico paradosso, forse anche più grande rispetto a quello che riguarda il gioco pubblico: anche se nei confronti della Torino-Lione, almeno, si è sentito parlare di un'analisi tra costi e benefici per poter prendere una decisione concreta. Cosa che nei confronti del gioco non è mai stata neppure ipotizzata, accontentandosi di dati, stime o analisi presunti e non ufficiali, mai confermati e – peggio ancora – neppure richiesti dallo Stato.
Tutto questo dovrebbe far riflettere, e non poco, non soltanto gli italiani ma anche lo stesso governo, oppure il Parlamento: un organo, quest'ultimo, sempre più svuotato di qualunque competenza, salvo poi essere utilizzato come una sorta di “alibi” politico o come strumento decisivo per l'uscita da una situazione di stallo, affidandogli il voto finale rispetto a quelle decisioni che un Esecutivo bifronte non è in grado di prendere da sé. Anche sul tema del gioco, sarebbe auspicabile spostare la decisione verso il Parlamento, vista l'incapacità del governo di proporre una linea coerente e davvero sostenibile, limitandosi a misure che hanno l'unico effetto di strangolare le imprese e aumentare i rischi di ricaduta nell'illegalità, senza neppure mirare davvero alla scomparsa dell'offerta dal territorio o disincentivazione dell'azzardo, come un tempo si voleva far credere, visto che si mettono a bilancio per gli anni successivi maggiori proventi provenienti da questa attività: il che significa che il governo punti proprio sul fatto che gli italiani continuino a giocare e possibilmente anche più di prima. 
In questo scenario, tuttavia, la palla è ancora in mano all'Esecutivo, che già la scorsa estate, nell'emanare il primo di una serie di interventi “demolitivi” nei confronti di questa industria (ovvero, il decreto Dignità), si era assunto l'impegno di emanare una riforma del settore, annunciando un riordino che si sarebbe dovuto compiere entro il mese scorso, ma del quale non si è mai discusso, né con gli addetti ai lavori, ma neppure in Consiglio dei Ministri. Per un'altra incompiuta le cui conseguenze, però, sarebbero a dir poco devastanti. Proprio come accade nei confronti del Tav: anche se qui, a differenza del gioco, se ne discute tanto, forse anche troppo, e ormai continuamente. Seppure sempre attraverso un taglio poco concreto e molto ideologico.
Quello che tutti dovrebbero capire, però, è che qualunque sia la decisione finale che verrà assunta dal governo, sui giochi come sulla questione dell'alta velocità italo-francese, il risultato sarà comunque pessimo per il nostro paese e le ripetute discussioni di questi ultimi mesi non saranno affatto indolori. Anche quando parliamo di misure che scontentano le imprese estere - senza guardare alle sole realtà italiane, dove gli effetti sono già evidenti – è evidente che il danno maggiore anche in questo caso viene fatto alla nostra economia, poiché la fuga degli investitori esteri, che si è già concretizzata nel corso degli ultimi dieci mesi (un'inchiesta de IlSol24ore ha quantificato in oltre 36 mililardi di euro la cifra di capitali disinvestiti dagli stranieri in Italia), comporta un impoverimento della nostra economia e del valore industriale del nostro paese, con ricadute inevitabili in termini di ricchezza e occupazione. Al punto da rendere sempre più difficile anche soltanto pensare di invertire la rotta. Come poter chiedere agli investitori esteri di dare fiducia al nostro paese, quando riusciamo a bloccare lavori già deliberati, rimandiamo l'emanazione di bandi di gara per anni (sul Tac come sui giochi) e, peggio ancora, facciamo sistematicamente slittare termini la cui scadenza è stata decisa dallo stesso governo che poi la disattende? Sia chiaro: il malcostume politico italiano non è soltanto figlio dell'attuale governo ma è il frutto di anni di cattiva gestione e dell'attuazione di più governi che si sono susseguiti negli anni, troppo spesso incapaci di prendere decisioni e di assumersi le loro responsabilità. Se l'alta velocità è un progetto in bilico da oltre vent'anni, il gioco pubblico è in situazione analoga da una quindicina: e alle prese con un'annunciata riforma da circa dieci, quando si iniziò a parlare per la prima volta di riordino e semplificazione. Senza ma arrivare a nessun conclusione.
In questo scenario tutt'altro che confortante (per il settore e per il paese), l'industria del gioco si ritrova questa settimana a Rimini per una nuova edizione della fiera. In un clima di totale incertezza dove il tema del riordino diventa inevitabilmente centrale, con l'auspicio generale che non si riduca all'ennesima Chimera, analogamente alla precedente Legge delega o alla presunta riforma passata per la Conferenza unificata. Anche se la linea generale, per tutte le questioni di estremo interesse che riguardano il paese, sembra essere quella di rimandare i lavori a giugno, all'indomani delle elezioni europee che potrebbero sconvolgere gli equilibri di una maggioranza sempre più controversa, ma ancora saldamente legata da quel famoso contratto stilato ormai un anno fa, attorno al quale ruotano le sorti della nazione.

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