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Il peso della sostenibilità e il prezzo della responsabilità

13 maggio 2024 - 12:46

Dopo la diffusione dell'Esg e le varie (buone) politiche adottate dalla grandi aziende di svariati settori la sostenibilità perde improvvisamente peso (e spazio) nella comunicazione. Un segnale preoccupante ma già noto al gioco.

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Non è solo una questione intrinseca al comparto del gioco pubblico. Oggi il tema della responsabilità di impresa e della  sua percezione – spesso distorta – da parte dell'opinione pubblica, sta diventando una materia diffusa e pure piuttosto trasversale. Anche se negli altri settori (buon per loro, diranno gli addetti ai lavori del gioco!) non si registra lo stesso accanimento e lo stesso livello di strumentalizzazione da parte di alcuni media e di varie forze politiche. Ma questa è un'altra storia. Quella che invece ci piace qui condividere e analizzare riguarda il dietro-front a livello di comunicazione aziendale che si sta registrando all'interno delle più importanti industrie sul tema della sostenibilità. Come rilevato con particolare acume da Giampaolo Colletti su IlSole24Ore, quello che accade oggi è che, tra pericoli reputazionali e normative stringenti, un’azienda su quattro decide di non parlare delle strategie di sostenibilità, mentre più della metà ha ridotto l’esposizione nonostante incrementi l’impegno su tale fronte. Curioso, e molto, ma non del tutto assurdo: o, almeno, così non può apparire a chi si occupa di gioco pubblico, che è probabilmente abituato a (sopportare) ben altro.
Come aveva provocatoriamente segnalato qualche tempo fa Libération, suscitando ampio dibattito, la domanda che è lecito porsi è: per salvare il pianeta bisogna convincere o costringere l’opinione pubblica? Anche se questo avveniva nel pieno della crisi francese legata ai gilet gialli e alle azioni governative per l’ambiente e contro il climate change. Un'interrogativo che oggi appare ancora più di attualità, chiamando in causa direttamente le aziende. Una domanda che – mutatis mutandis – ci si chiede anche all'interno del settore del gaming, riguardo alle politiche di gioco responsabile che vengono da tempo condotte dalle imprese del gioco ma spesso applicate o anche solo comunicate con timidezza, se non addirittura con timore. In effetti oggi c’è un’altra pericolosa tendenza da considerare, che riguarda già da tempo l'industria del gioco e più di recente le grandi aziende di vari settori nel più ampio spettro della sostenibilità: cioè quella del silenzio. Dopo gli anni segnati dal boom del cosiddetto “washing” in tutte le sue declinazioni – ossia narrazioni edulcorate rispetto ad azioni poco trasparenti – ora il rischio per i mercati è legato alle pratiche di "hushing": locuzione inglese - coniata dalla società di consulenza Tree Hugger - che significa “stare zitti”, appunto.
Il termine nella sua versione greenhushing è stato adottato per evidenziare come come molte realtà siano sempre più restie a condividere politiche e iniziative sostenibili. Il silenzio è scelto soprattutto dalle imprese più piccole che attivano meccanismi di difesa. Come riportato su IlSole24ore: “Il termine hushing è utilizzato per indicare la tendenza delle aziende impegnate su tematiche di sostenibilità a non comunicare gli impegni e le attività svolte. Il prefisso green, pink, social fino ad arrivare al rainbow indicano poi il settore su cui si tende a non voler comunicare. Questa tendenza si contrappone al ben noto termine washing con cui le imprese comunicano prestazioni di sostenibilità senza un effettivo fondamento”, afferma Ida Schillaci, membro del consiglio direttivo di Sustainability Makers, associazione nata nel 2006 che riunisce oltre trecento professionisti in rappresentanza di oltre 250 aziende.
I casi di green e socialhushing per loro natura non sono noti in quanto nascono dalla tendenza a non volere divulgare le buone pratiche intraprese e solo gli addetti ai lavori ne sono a conoscenza. Una pratica che gli addetti ai lavori del gioco pubblico italiano conoscono bene: quante volte ci si è detti, nel comparto, dell'abitudine di “parlarsi addosso” di determinare questioni senza mai varcare i confini del comparto. 
Si tratta di una tendenza fortemente conservativa, soprattutto tra le piccole e medie imprese, che optano per il silenzio piuttosto che rischiare le complesse acque della comunicazione sulla sostenibilità.
La paura principale è quella di incorrere in errori che potrebbero avere implicazioni non solo sulla loro reputazione, ma anche su fronti legali, specie con l’inasprirsi delle normative ambientali. Una sorta di difesa preventiva contro le accuse di greenwashing che potrebbe attirare critiche sia dai consumatori sia dalle autorità di regolamentazione.
A certificarlo sono i dati: secondo l’ultimo rapporto “Net zero and beyond” promosso dalla società svizzera di consulenza finanziaria South Pole, un’azienda su quattro non parla dei propri obiettivi di sostenibilità. Per quasi la metà degli intervistati comunicare i propri obiettivi climatici è diventato più difficile (44 percento), mentre più della metà sta diminuendo le comunicazioni (58 percento).
Vale anche per il mercato italiano: secondo il recente rapporto GreenItaly della Fondazione Symbola e di Unioncamere, il 57 percento delle imprese nostrane ha adottato almeno una misura per ridurre l’impatto ambientale della propria attività, ma solo il 18 percento ha comunicato le proprie azioni ai clienti, fornitori o partner. Di fatto il 39 percento delle imprese italiane ha fatto greenhushing, non rendendo noti i propri sforzi. In fondo è un fenomeno che si legge all’opposto di quel coraggio espresso dal brand activism, ossia dall’attivismo delle aziende. Una scelta di chiusura rispetto ai rischi di strumentalizzazione che si annidano in rete e sui social. Con la preoccupazione si intensifica soprattutto tra le quotate: in questo caso il 70 percento delle società collocate in Borsa ammettono di intraprendere percorsi di greenhushing. Anche se – rileva ancora la ricerca - i budget associati alle politiche di abbassamento o annullamento dell’impatto ambientale siano incrementati nell’86 percento dei casi. Insomma, si fa ma non si dice. Esattamente come accade nel settore del gioco rispetto alle politiche di gioco responsabile e, quindi, di prevenzione e tutela dei consumatori. Proprio oggi che – anche qui – le aziende leader del settore hanno comunque adottato politice di Esg, che spaziano quindi in tutti gli ambiti della sosteinibilità, e non solo rispetto al gioco responsabile. Anzi, come noto, un regolatore attento e avanguardista come quello maltese ha addirittura introdotto l'approccio Esg nel suo sistema di regolamentazione introducendo il tema e la sensibilità nei confronti della materia nell'industria del gaming.
Ma anche in Italia, al di là delle richieste o imposizioni normative, le grandei aziende del comparto hanno avviato percorsi di questo tipo, volontariamente, sia pure rinnciando spesso a comunicarlo – o comunque ad esalterle – verso l'esterno. Qualcuno forse avrà notato che i Bilanci sociali delle grandei aziende di gaming, da evento di primo piano e oggetto di dibattito, si sono tramutati nel tempo in semplici report o comunicati stampa, neanche da prima pagina. Ed è proprio ciò di cui stiamo parlando.
“Le piattaforme social hanno sicuramente un forte impatto sia da un punto di vista delle tendenze sia per le richieste costanti dei consumatori che in tempo reale possono comunicare e richiedere informazioni ai propri brand. La scelta di non comunicare è sicuramente legata al timore di essere criticati o accusati di washing: si teme che le attività dell’azienda in tema di sostenibilità possano essere viste dagli stakeholder come non sufficienti o non coerenti, o portare ad un aumento delle aspettative e delle pressioni sull’azienda”, dice Schillaci sul quotidiano, sia pure non parlando del gaming. 
Ma c’è di più. Nel caso delle politiche green il tema scaturisce anche dal fatto che le direttive europee sono sempre più stringenti e alzare l’asticella costa in termini di aspettative, facendo nasciere l’esigenza di avere team strutturati non solo per la gestione, ma anche per la comunicazione della sostenibilità – dovendo riuscire a trasmettere concetti spesso complessi in modo efficace, credibile e corretto - la scelta di non comunicare porta a credere che quei progetti aziendali non siano condivisi, oppure che non ci si voglia investire. 
Ma non comunicare progetti considerati di valore solo per il timore di essere attaccati è non solo un’occasione persa, ma anche una specie di autogol rispetto agli stessi obiettivi che si intende perseguire con quelle azioni: visto che se i consumatori non conoscono le pratiche di sostenibilità, non hanno la possibilità di effettuare acquisti consapevoli perché non hanno le informazioni necessarie. 
Nel gioco, allo stesso modo, adottare politiche di prevenzione senza condividerle con l'esterno, nel timore che possa apparire come una sorta di excusatio non petita e/o per non dare ulteriori appigli a i numerosi detrattori che non perdono occasione per poter attaccare l'industria anche quando non sarebbe attaccibile, si rivela un autentico autogol oltre a vanidifare parte dello stesso impegno a favore dei consumatori e dell'intero ecosistema.
Il rischio ulteriore, tuttavia, per tutti, è che la non comunicazione potrebbe incrementare la tendenza ad abbandonare le pratiche virtuose. E in un mondo ormai iperconnesso il silenzio non è più un’opzione percorribile. 
Per questo è importante, imprescinidbile, necessario, rialzare la testa, per gli addetti ai lavori del gioco pubblico, facendo valere le proprie ragioni e le proprie attività virtuose: nella consapevolezza che l'impegno per il bene comune prima o poi potrà essere riconosciuto come tale. E i segnali di timidezza che arrivano dagli altri settori potrebbero essere uno stimoloin più, non in meno: non solo nell'antica logica del “mal comune, mezzo gaudio”, ma in un approccio di consapevolezza diffusa, sapendo che alla fine tutto il mondo è paese. E che se è vero che anche le altre industrie, spesso, subiscono attacchi simili a quelli subiti da sempre dal mondo del gioco, allora forse si può iniziare a considerare l'industria del gaming rientrata nella “normalità”, come auspicava da tempo. Volendo essere (ammettiamolo) oltre modo ottimisti, ma senz'altro speranzosi.
 

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