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Qualità e merito: le parole sconosciute nell'Italia dei divieti

02 luglio 2018 - 10:11

Il governo continua a inseguire la linea dura contro la pubblicità dei giochi, nonostante nel resto del Mondo si punta su qualità e chiarezza e su norme efficaci.

Scritto da Alessio Crisantemi
Qualità e merito: le parole sconosciute nell'Italia dei divieti

 

Non è soltanto una questione economica. Diciamolo pure, e una volta per tutte. Quando si parla di gioco con vincita in denaro, non si possono mettere in secondo piano gli altri aspetti, decisamente rilevanti e più delle entrate erariali, come la tutela della salute e dell'ordine pubblico, del risparmio e, quindi, la sicurezza dei consumatori. Una distinzione doverosa, imprescindibile, fondamentale, che per alcuni può apparire scontata, ma non lo è affatto. E' evidente dal botta e risposta a distanza andato in scena nelle ultime ore tra un rappresentante dell'industria del gaming e il vice premier Luigi Di Maio, sul tema della pubblicità dei giochi e sull'imminente divieto annunciato dal leader del Movimento 5 Stelle.

Ciò che sembra evidenziarsi dalle parole dell'operatore (o, meglio, dall'interpretazione fornita dal Ministro Di Maio, visto che nella missiva originale si possono individuare dei precisi distinguo), è la problematica di natura industriale che si pone di fronte all'intenzione politica di andare a vietare la pubblicità dei giochi, tenendo conto che le imprese che hanno deciso di investire nel nostro paese acquistando una concessione di gioco – con particolare riferimento per quelle delle online, per le quali l'unica possibilità di farsi conoscere tra i consumatori è la pubblicità sui media, non avendo dei punti di raccolta a terra – non avrebbero più alcuna possibilità di stare sul mercato. Evidenziando, quindi, una grande anomalia nella proposta di legge caldeggiata dal vice premier, che oltre ad apparire illegittima dal punto di vista della coerenza normativa, si presenta come un evidente ostacolo per le ordinarie attività, andando a determinare la chiusura di attività economiche e l'uscita di scena di investitori internazionali nella Penisola. Come del resto hanno già segnalato diverse aziende all'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli nelle scorse ore e, in particolare, tra le società che hanno appena partecipato al bando di gara per il rinnovo delle stesse concessioni, di cui si attende ancora oggi l'aggiudicazione definitiva, chiedendo di poter uscire già ora, prima ancora di poter entrare sul mercato. Non potendo attuare il piano di business costruito attorno a quella gara. Venendosi quindi a creare nuovi grattacapi in termini di occupazione, per un'altra questione che starà peraltro sicuramente a cuore allo stesso Di Maio, essendo anche l'attuale titolare del dicastero del lavoro.
Dietro a queste tematiche, la cui portata è senz'altro di rilevanza centrale per lo Stato e, quindi, per il governo che è artefice dell'iniziativa, vi sono però tutte le altre questioni elencate in premessa, che non possono e non devono essere dimenticate. Anzi, è proprio da lì che deve partire ogni ragionamento relativo alla regolamentazione del gioco pubblico. E non vale soltanto per gli operatori, ma anche – e soprattutto – per il governo, che in questa fase sembra essere l'unico soggetto a non (voler) considerare gli aspetti regolamentari relativi a questa materia, ostinandosi nel portare avanti una linea tecnicamente proibizionista, seppure non dichiarata come tale. Non si può invece neppure ignorare, parlando di gioco, che non solo esisteva prima, ma esiste ancora oggi, un'offerta enorme di gioco illecito (o non autorizzato), che già rappresenta una concorrenza sleale per gli operatori regolari e un rischio concreto per i giocatori: con l'unico strumento in mano all'industria (e, quindi, in mano allo Stato, a cui fanno riferimento i titolari di concessioni pubbliche) per distinguere la liceità della propria offerta che è rappresentato oggi proprio dalla pubblicità. Perché solo un operatore legale, oggi, può fare promozione sui mezzi tradizionali (media, stadi, eventi, e così via), mentre gli stessi canali sono inibiti ai soggetti non autorizzati, peraltro dopo anni di scorribande degli illegali e una fatica mostruosa nell'instaurare un controllo decente sulle sponsorizzazioni.
Vietare ogni forma di pubblicità, quindi, vorrebbe dire rendere indistinguibili agli occhi dei consumatori l'offerta legale da quella illegale, per un rischio evidente in termini di protezione degli utenti, di tutela della salute pubblica e del risparmio. Proprio quegli aspetti, cioè, che il governo prometteva di voler salvaguardare. Per un evidente suicidio politico e non solo economico, e alla luce del sole. Senza contare, poi, che da una soluzione di questo tipo tornerebbe a prendere piede l'offerta illegale, dopo che nel corso degli ultimi anni si era ottenuta la conversione di molte società di gioco dall'offerta “border line” a quella dei canali ufficiali di Stato, proprio per via delle difficoltà che il Legislatore italiano era riuscito a introdurre nella promozione dell'offerta illecita, rendendo più ardui da attuare i piani di sviluppo delle società off-shore e comunque non autorizzate fino a qualche tempo fa. Basta guardare i report relativi al mercato online, dove l'offerta illecita è comunque ancora oggi enorme, o alle “sanatorie” compiute sui punti vendita di scommesse terrestri che fino a qualche anno fa operavano in ben 7mila agenzie illecite e che lo Stato è riuscito a far transitare, almeno in circa 2.400 casi, verso il circuito lecito. Per un'inversione di tendenza che avrebbe quindi effetto pressoché immediato di fronte alla cancellazione delle strumento pubblicitario.
Possibile che nel nostro paese non si possa mai utilizzare un modello qualitativo? Perché si deve sempre passare dalla più totale deregulation (nel caso del gioco, il riferimento non è certo al modello attuale, caratterizzato al contrario dall'eccesso di norme, bensì alla situazione vigente fino a qualche anno fa) al divieto assoluto, quando sarebbe possibile adottare criteri, norme e strumenti orientati a garantire une determinata qualità, in linea con le esigenze dello Stato? Domande che non ci stancheremo mai di porre, convinti che, prima o poi, dovranno trovare risposta. Basterebbe studiare, del resto, per capire l'inefficacia e la pericolosità di un divieto assoluto di pubblicità, o anche più semplicemente guardarsi attorno, osservando cosa stanno facendo gli altri paesi dove il gioco è altrettanto diffuso e dove si sono affrontate le identiche esigenze in termini di tutela dei consumatori. Come ha fatto la nostra Redazione, per esempio, nell'ultimo numero della rivista Gioco News di fresca pubblicazione, dove si può trovare uno speciale di approfondimento dedicato alla pubblicità dei giochi, con un interessante benchmark internazionale che, ci auguriamo, possa rivelarsi una lettura utile per il nostro governo e per il Parlamento che dovrà comunque valutare l'iniziativa legislativa, proibizionista forse non di nome, ma senza dubbio nei fatti. In Regno Unito o in Spagna (tra i casi descritti nell'inchiesta), i due mercati altamente sviluppati alla pari di quello italiano, se non in modo addirittura maggiore, esiste una regolamentazione sulla pubblicità dei giochi che mette al primo posto la tutela dei consumatori e della salute pubblica, prima di ogni altra cosa: e lo fa attraverso specifici criteri qualitativi imposti agli operatori e ai media, controlli puntuali, sanzioni ferree e tutto ciò che serve per rendere efficace ed efficiente l'intero sistema. Con benefici per tutti. Possibile che anche l'Italia non possa essere alla pari degli altri paesi, neanche su questo? Eppure gli aspetti ritenuti “dannosi” nell'attuale sistema di promozione dei giochi sembrano essere stati individuati: come l'impiego di testimonial provenienti dal mondo dello sport e dello spettacolo, l'eccesso di offerta in determinati canali o mezzi, e così via. Allora, perché non valutare attentamente ciò che occorre migliorare, proponendo leggi o norme non solo responsabili, ma anche attuabili e sostenibili? Il divieto assoluto della pubblicità, in questa fase, vuole essere soltanto una scorciatoia, peraltro a scopi puramente elettorali: ma la complessità della materia e la sua pericolosità intrinseca, non consentono errori. A proposito di spot: meglio prevenire, che curare, recita una popolare reclame. Ma meglio anche di vietare, aggiungiamo noi.

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