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Niente gioco, non siamo inglesi

09 luglio 2018 - 09:44

Il capolavoro sportivo dell'Inghilterra ai mondiali (e non solo) è merito di precise riforme e del fondo sullo sport, che ha saputo sfruttare l'industria del gaming: al contrario dell'Italia.  

Scritto da Alessio Crisantemi

 

L'Inghilterra potrebbe vincere i Mondiali di Calcio 2018. Dopo aver conquistato l'accesso alle semifinali, la nazionale punta ora al titolo iridato, che (adesso) sembra proprio essere alla sua portata. Nonostante lo scetticismo dei bookmaker alla vigilia della competizione. Anche per questo, l'Inghilterra uscirà in ogni caso vincitrice di questa edizione dei Mondiali; comunque vada a finire, per il solo fatto di essere arrivata fino in fondo alla massima sfida. Non si tratta però di un caso, né tanto meno di fortuna (evitando di tirare in ballo ogni volta la sorte o di scomodare sempre la Dea bendata): quello che abbiamo di fronte, al contrario, è il risultato di un lavoro serio e sicuramente ben eseguito, a livello sportivo, ma anche dal punto di vista politico ed economico. Il risultato di alcune riforme, in un paese che crede nello sport e nel proprio futuro: consapevole, al tempo stesso, del ruolo centrale rivestito della politica e dal governo nel tracciare le basi di ogni cammino che si voglia far diventare virtuoso. E così è successo. Chi ha buona memoria ricorderà che la stessa nazione, appena due anni fa, aveva stupito il mondo in un'altra competizione sportiva di primo piano: anzi, la più importante, vale a dire le Olimpiadi. Realizzando un autentico capolavoro ai Giochi di Rio 2016, al punto di balzare sulle prime pagine di tutti i giornali internazionali, dando risaldo proprio alle riforme che avevano portato al successo del “modello britannico”, almeno nello sport. E alla base di quella strategia, politica ed economica, c'è l'industria del gioco. O dell'azzardo, come si usa ormai dire in Italia. E come si dice, del resto, anche in Regno Unito, dove la differenza tra gioco e gioco d'azzardo è data da appena due lettere: “bl”, che trasformano la parola “gaming” in “gambling”. Peccato però che le differenze, tra i due paesi, non siano soltanto legate alla definizione linguista di “gioco d'azzardo”, ma sono ancora più evidenti nella gestione di tale comparto, a tutti i livelli. A partire dall'approccio dello Stato nei confronti della materia.

In Regno Unito, nonostante l'esistenza comunque di movimenti antagonisti e gruppi di pressione fortemente contrari alla diffusione del gioco con vincita in denaro, l'industria viene considerata alla pari delle altre che portano ricchezza al paese. E in qualche caso, viene esaltata anche più di altri comparti, tenendo conto delle forti componenti di innovazione e sviluppo tecnologico che la distinguono da altri settori dell'industria. A l punto che, da quelle parti, lavorare nel comparto del gioco è da considerare un vanto, e non certo un “peso”, come avviene invece in Italia. La differenza sostanziale tra i due paesi e tra i due sistemi, però, è nella gestione “politica” del comparto: se da noi, fino ad oggi, l'industria del gioco ha svolto solo un ruolo da “bancomat” di Stato, in Regno Unito è una vera e propria risorsa, nel senso più ampio del termine. Sfruttata, però, nel migliore dei modi, come rivelano i risultati ottenuti dallo sport britannico. Sì, perché la ricostruzione dell'intero sistema sportivo dell'isola della Regina passa per il finanziamento di un fondo, denominato 'Uk Sport', e finanziato in gran parte dagli introiti della Lotteria nazionale. Secondo il meccanismo – più volte citato anche nel nostro paese ma mai realmente perseguito - delle cosiddette 'good causes': le buone cause alle quali vengono destinati i proventi del gioco da parte del governo, tra le quali rientra appunto lo sport nazionale. Istituito dal primo governo di Tony Blair, nel 1997, e che ha dato presto i suoi frutti. Oggi, un quinto delle entrate della della National Lottery viene impiegato in questo modo, per un modello economico (e meritocratico) applicato allo sport che risulta talmente convincente, al punto che anche l'attuale premier, Theresa May, lo ritiene replicabile ed estendibile nel Regno Unito post-Brexit, anche al di fuori dello sport. Magari prevedendo anche qui un contributo da parte dei giochi.
In Italia la musica è ben altra, e sotto gli occhi di tutti. L'industria del gioco è da sempre una sorta di “peso” per lo Stato, anche se di certo non lo è dal punto di vista economico. Dove, anzi, ha un ruolo fin troppo centrale, contribuendo in maniera più che significativa nella casse dell'Erario e riuscendo più volte a tappare i vari buchi di bilancio che si sono presentati sistematicamente nell'esecuzione delle politiche economiche degli ultimi governi. Ma nonostante questo, il comparto continua ad essere visto come una specie di “male” oscuro del nostro paese. Al punto da voler essere vietato, distrutto, smantellato da un'ampia parte politica: proprio quella, peraltro, che si trova adesso alla guida del paese, rappresentata dal Movimento 5 Stelle (ma col benestare, almeno apparente, anche della Lega). Ma se questo non è possibile, com'è evidente, per via delle devastanti ricadute in termini di illegalità, il governo ha pensato bene di iniziare a invertire la rotta introducendo un divieto totale di pubblicità del gioco. Ignorando, in questo caso, il rischio comunque evidente (in quanto ravvisato anche dall'Unione europea, nella sua ben nota Raccomandazione) in termini di illegalità. E vietando, al tempo stesso, anche il finanziamento indiretto al mondo dello Sport, bloccando ogni possibilità di sponsorizzazione da parte delle società di gioco, oltre a interrompere gli spot in tv che rappresentavano comunque un contributo indiretto, visto che la principale fonte di reddito per gli sport italiani è rappresentata dai diritti televisivi, il cui valore è legato proprio alla capacità di attrarre investimenti pubblicitari. E gran parte della pubblicità dei giochi è rappresentata proprio dalla promozioni dei bookmaker durante le principali manifestazioni sportive.
Insomma, l'esatto contrario di quello che avviene in Regno Unito, dove il governo di certo non si sognerebbe mai di andare a vietare la pubblicità del gioco, pur avendo introdotto e attuato disposizioni molto rigide, serie e concrete riguardo alla pubblicità e promozioni dei giochi.
Insomma, tutta un'altra storia. Come del resto risultano sempre più distanti, le due realtà di Italia e Inghilterra, (anche) per quanto riguarda il mondo dello sport: completamente da riformare nel nostro paese, e sempre più sulla cresta dell'onda dall'altra parte della Manica.
Chissà se qualcuno riuscirà a fare questo tipo di riflessioni in Italia, in un momento così delicato e mentre assistiamo ai Mondiali di calcio da spettatori, come non eravamo certo abituati a fare. Proprio nel momento in cui il governo si appresta ad approvare una legge semi-proibizionista nei confronti dei giochi, ben lontana da quell'operazione trasparenza realizzata da Tony Blair a fine anni '90. Un modello che, se applicato nel  nostro paese, potrebbe rendere tutto più chiaro, agli occhi dell'opinione pubblica, e tutto molto più virtuoso. Per il bene dello sport, e dell'intero paese più in generale.

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