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Nuovo governo e vecchie abitudini: con la ‘manina’ che strizza ancora i giochi

21 novembre 2022 - 10:18

Nonostante i proclami che annunciavano una nuova era, il governo si presenta all’appuntamento con la Manovra con il solito “piglio” nei confronti del gioco. Letteralmente.

Tutto cambia perché nulla cambi. Abbiamo fatto ricorso, più volte, alla celebre citazione di Giuseppe Tomasi di Lampedusa per sottolineare l’antico malcostume italico. Politicamente parlando. Fatto di annunci, promesse e proclami, che descrivono un futuro migliore e un cambiamento imminente, a portata di mano, che viene però, ogni volta, sistematicamente tradito. Un fastidioso e ripetuto dejà-vu il quale, non a caso, viene messo nero su bianco e storicizzato in un’opera letteraria, già nel 1958, tant'era - ed è ancora oggi – così frequente questa abitudine. Praticamente ordinaria. Che è solita ripetersi, in modo particolare, ad ogni cambi di governo: peggio ancora negli ultimi decenni, quando ogni campagna elettorale ha promesso stravolgimenti anche epocali rispetto al passato, salvo poi tradirli sistematicamente. È avvenuto con il governo populista, che doveva “aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno”, salvo poi finire con l'occuparsi di gestire poltrone e incarichi e poco più. Ma si è visto anche, in qualche modo, con il recente “governo dei migliori” guidato da Mario Draghi, che nonostante gli evidenti meriti in termini di stabilità e crescita economica, è finito col lasciare incompiute alcune delle riforme più volte annunciare e promesse al spese e agli osservatori esterni. Tra le quali c’era anche quella del gioco pubblico, il cosiddetto Riordino, che nonostante in quella legislatura sia stato davvero sfiorato, arrivando fino alla stesura di una bozza da approvare in Consiglio dei ministri qualche giorno prima della crisi di governo, è finito nel cassetto delle pratiche incompiute come già accaduto nei precedenti governi, dal 2012 ad oggi. Da quando cioè il celebre decreto Balduzzi aveva proposto la concertazione con gli enti locali per la riscrittura delle regole del gioco pubblico, poi rilanciata dalla successiva legge delega approvata dal parlamento nel 2014, e rimasta ancora inattuata, nonostante il passaggio - importante ma non ancora attuativo - dell’accordo raggiunto in conferenza unificata nel 2016.
Ebbene, anche stavolta, in attesa di conoscere in maniera seria e strutturata le reali politiche che il governo intenderà attuare sul gioco (a partire dall'assegnazione o meno di una delega specifica nel Mef), le premesse non sembrano essere delle migliori. Di fronte all’insediamento di un esecutivo che prometteva di scardinare gli equilibri esistenti e non condivisi, che subito dopo essersi insediato sembra dare prova di continuità rispetto ai temi principali, fatto salvo qualche piccolo o grande dettaglio. Mentre continua a ripetersi quel solito cliché, nel vedere come tutto quello che doveva cambiare, ameno dal punto di vista economico e finanziario, non sembra verificarsi. Soprattutto nel gioco, nei confronti del quale il governo Meloni, prima ancora di annunciare in strategia, ha subito pensato di poterne ricavare qualcosa, mettendo nuovamente le mani nelle tasche dei giocatori. Per un temibilissimo ritorno al passato, che giunge però in un momento in cui in molti, nel settore, non sembrano neppure riuscire a scorgere un futuro. Con la politica che dimostra - ancora una volta - di non preoccuparsi neppure di studiare prima le conseguenze che potrebbe avere una misura simile su un mercato già oggi caratterizzato da una forte presenza di illegalità che costituisce una rete parallela rispetto a quella dello Stato, che non si è ancora riusciti a sconfiggere fino in fondo, pur avendola domata in modo più che significativo. Ma con altri strumenti. E non certo con l’innalzamento delle tasse e l’impoverimento dei giocatori, che rendono sempre meno competitiva l’offerta di fuoco legale da quella illecita. E neppure con il divieto di pubblicità che continua a rimanere in vigore, dopo il decreto vergogna promulgato dal governo Conte 1 e fortemente voluto dal Movimento 5 Stelle.
Siamo alle solite, dunque. E anche se il governo guidato da Giorgia Meloni deve naturalmente ancora dimostrare ogni suo potenziale ed eventuale valore, se è vero che il buongiorno si vede dal mattino, possiamo già dire che la giornata del gioco pubblico è iniziata piuttosto male e preannuncia soltanto cattivo tempo. Con la speranza generale, almeno tra fli addetti, che si possa avviare un serio confronto tra l’esecutivo e l’industria, per affrontare il tema con la serietà che merita, cioè in tutta la sua complessità e delicatezza, per dare al settore la stabilità che merita e garantire ai consumatori e agli stackeholder istituzionali le garanzie necessarie, per un futuro sostenibile. Al di là delle proroghe già annunciate nella prossima Legge di Bianco che sì servono a dare continuità all’industria, ma nulla risolvono rispetto al livello di incertezza e instabilità che si trovano ogni giorno a dover gestire e affrontare gli addetti ai lavori del comparto. Incrementandoli, anzi, non riuscendo a dare alcun tipo di garanzia se non quelle necessarie all’erario, ma solo fino a un certo punto. Eppure basterebbe “soltanto” emanare una riforma, per poter dare al comparto le poche certezze di cui ha bisogno, riaprendo il mercato (anche) agli investitori internazionali e dando prova di serietà a chi intende continuare (o iniziare) a investire in questo paese. Che la materia non sia semplice e neppure immediata, è evidente a tutti: ma il semplice fatto di non volere neppure occupare, è un autentico delitto. Le cui vittime sono fin troppe, dentro e fuori al settore, tra chi lavora nell’industria e chi rappresenta il cliente finale, cioè il semplice cittadino. Ovvero, quel popolo sovrano, che tutti dicono di voler proteggere, tutelare e rappresentare.

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