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Alessandro Haber: il gusto di perdere, la bellezza di vincere

31 dicembre 2021 - 08:53

Alessandro Haber a tutto campo tra il suo sogno di diventare Marlon Brando e il suo affetto per Gigi Baggini, passando per una vita sregolata, condita di tanto poker.

Scritto da Anna Maria Rengo

Io sono Alessandro Haber. Non ho mai scritto prima, tranne qualche poesia da ragazzo: faccio le cose che so fare. In molti mi avevano chiesto di scrivere la mia autobiografia, ma mi era sempre sembrato che sarebbe stato come autoincensarmi. Poi me l'ha chiesto Mirko Capozzoli e, quando un anno e mezzo fa ho capito che saremmo stati fermi, a causa della pandemia, per tanto tempo, ho pensato che era arrivato il momento giusto per raccontare la mia vita e la mia passione totale per il lavoro. Ho chiamato Capozzoli e gli ho detto: 'Facciamo questo percorso. Cominciamo a giocare'”. Nasce così, dunque, “Volevo essere Marlon Brando (ma soprattutto Gigi Baggini)”, libro edito da Baldini+Castoldi e che reca la firma congiunta di Haber e di Capozzoli.

“La mia - racconta ancora Haber – è stata una vita smodata, ricca di generosità, di affetti, di situazioni incredibili. È la storia di un attore che ha curato più la sua vita di artista che quella di uomo. Sì, io mi tengo sempre lontano dalla vita reale. Mi piace travestirmi, raccontare, emozionarmi ed emozionare la gente, avere un contatto con il pubblico. Mentre narravo la mia storia e Capozzoli la registrava, ho avuto dei momenti di crisi, ma poi ho capito che potevo essere utile agli altri. Mi sono messo a nudo, non mi sono risparmiato. Ho detto la verità, nient'altro che la verità”.

Ma tra Marlon Brando e Gigi Baggini, personaggio del film di Elio Petrangeli “Io la conoscevo bene” interpretato da Ugo Tognazzi, a chi pensa di somigliare di più?  “Marlon Brando è un mito. Chi non ha mai pensato di diventare uno come lui, un attore con una faccia unica e irripetibile? Ma Baggini, fallito che viene preso in giro, che i suoi sogni non li ha realizzati, mi aiutato a essere cazzuto, a lottare giorno per giorno, a calcare le scene, a stare davanti alla macchina da presa. Non mi sento una persona arrivata, ogni giorno devo scoprire qualcosa, ma mi sento in armonia con il mio lavoro. Baggini lo tengo accanto a me, per riscattarlo, per dargli una possibilità. Rappresenta gli ultimi, quelli che fanno fatica ad andare avanti: ne conosco diversi, alcuni li ho instradati, altri no, ma sono persone che mi fanno tenerezza”.

In che modo la pandemia l'ha portata a rivedere il suo concetto di libertà personale? “Essa è fondamentale per tutti, ma ci sono dei momenti nella vita in cui puoi fare male agli altri. Penso ai vaccini, lasciando da parte le incongruenze delle loro norme: è vero che viviamo in una democrazia, nella quale c'è libertà di esprimersi, ma viviamo anche in una comunità nella quale ci relazioniamo l'uno con l'altro. Se i virologi ci dicono di fare una cosa perché è giusta, bisogna essere coerenti e farla, se invece non la vuoi fare, allora, vai su un'isola a fare la vita da selvaggio. Ci sono delle regole e bisogna tenerne conto in alcuni momenti della vita”.

Qual è, invece, la sua attuale definizione della parola felicità? “In questo momento penso spesso all'addio alla vita. Cerco di lavorare il più possibile per ubriacarmi e non stare sempre lì con questo pensiero. L'idea di avere una figlia, Celeste, di averla fatta a una certa età, mi dà il senso della vita. Lei continuerà a esprimersi attraverso il mio cognome, il mio sangue, e questo mi dà un senso di ebbrezza, di dolcezza, di malinconia e, sì, anche di felicità, che è fatta di attimi. Se fosse continua sarebbe troppo. Sono belli anche i momenti in cui ci sono delle problematiche che vanno risolte, o nei quali si sta con un amico, o si prova uno spettacolo per un mese con l'ansia per la sua riuscita. L'idea di abbandonare questa ubriacatura che è la vita un po' mi dispiace, ma poi penso che stasera verrà mia figlia, e magari starà in camera sua a fare le sue cose, ma la sola idea che ci sarà mi fa stare meglio”.

In Regale di Natale e poi Rivincita di Natale il gioco del poker è grande protagonista. Che ricordo ha di questi due film diretti da Pupi Avati? “Non finirò mai di ringraziare Avati per avermi fatto girare il primo film di cui ero coprotagonista: Regalo di Natale, che ha rappresentato una svolta nella mia vita. Da allora la gente ha cominciato a guardarmi con affetto e stima. In quei due film ho ritrovato persone straordinarie come Diego Abatantuono, Carlo Delle Piane, Gianni Gravina. Ogni film ha una sua storia. Regalo di Natale è un film cattivo, sul tradimento e il poker era la scusa, appunto, per un doppio tradimento. E poi allora eravamo più giovani.... la vita ci sorrideva. Lo fa ancora, ma in maniera più timida”.
 
Nel suo libro parla più volte del poker e del gioco in generale. Che rapporto ha con esso? “Quando lavoravo poco avevo più tempo per giocare e lo facevo proprio per far passare il tempo. Nel gioco c'è una forma sana di masochismo: io penso che il vero giocatore sia un perdente. E a me piace rischiare, come quando hai dieci anni e ti dicono di non mettere le dita in quei buchini perché c'è la corrente, e tu sei tentato e lo fai lo stesso. Mi piacciono gli umori del poker, la cattiveria che si stempera, il bluff, l'attesa. Ed è bello vincere, specie quando bluffi e vinci con un punto inesistente, e ciò lo si può riferire anche alla vita. Ho giocato tanto a poker, anche 24 ore di seguito, ma poi mi sono reso conto che stavo autosbandando e che il lavoro conta di più . Ed è bello, il mio lavoro: quando Zio Vania lo fai tu, è come se lo riscrivessi”.

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