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Tommaso Avati: 'Dentro le famiglie ci sono le incomunicabilità maggiori'

24 settembre 2022 - 09:42

Sceneggiatore, scrittore, docente: Tommaso Avati prende spunto dalle sue vicende personali per raccontare nel suo ultimo libro il tema della sordità, ma soprattutto la difficoltà del comunicare comune a tante famiglie.

Scritto da Anna Maria Rengo
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Una saga familiare declinata al femminile, dedicata, anche se non esclusivamente, al tema della sordità e ai problemi che essa comporta

La racconta Tommaso Avati nel suo ultimo libro “Il silenzio del mondo” (Neri Pozza), di cui spiega così la genesi: “Per scrivere questo libro ho preso spunto da un problema che conosco bene, come la disabilità e la sordità, e sono partito per un lungo viaggio, raccontando una storia che si estende nel tempo e nello spazio e che non contiene in realtà nulla di autobiografico. Se però devo essere sincero fino in fondo, non posso non rilevare come la scrittura, dopo un po’ che la 'frequenti' finisca con l’assumere un tono di intimità e di assolutezza talmente profondo e autentico per cui diviene sempre e imprescindibilmente autobiografica. Tutti i personaggi di cui scrivo sono, ai miei occhi, non solo perfettamente reali, viventi e vibranti, essi sono me, nel senso che mi identifico pienamente con loro e per crearli, anche quelli negativi, ho attinto a elementi della mia stessa e più intima esistenza. La storia che tratto poi, nello specifico di questo ultimo libro, è una storia secondo me molto femminile: non c’è nulla di più femmineo dell’ascolto, del mettersi in contatto con l’altro, della comunicazione e della parola. Mi sembrava insomma che trattare questo argomento dal punto di vista, non di una donna, ma addirittura di tre, fosse il regalo più bello che potessi farmi”.

Che cosa vuol dire non udire? Quello che si perde è ovvio, ma c'è qualcosa che si guadagna o si può guadagnare da questa condizione?
“Essere sordi significa avere dimestichezza col silenzio, significa essere abituati a vivere in quel mondo. Conoscere l'assenza totale di suoni significa praticare una possibilità esistenziale privilegiata, che per me è terminata brutalmente e traumaticamente, quando ho dovuto protesizzarmi a 15 anni. Essere sordi significa anche essere inevitabilmente minorati, privi quindi di uno dei sensi fondamentali. Non udire chi ti parla mina alla base le radici dello stare insieme, della comunicazione. Un bambino sordo e non trattato, non curato, non riconosciuto, rischia di portare su di sé cicatrici indelebili. Essere sordo insomma è sia un dono che un danno. Per me il silenzio del mondo non esiste più, era legato alla mia infanzia e alla prima adolescenza, a un'epoca remota in cui l'assenza di suoni era normale, non era stigmatizzata, non rappresentava né un problema né uno scandalo, corrispondeva semplicemente al mio mondo un po’ speciale. Il silenzio del mondo è lo stato emotivo cui le tre protagoniste del romanzo cercando di ricondursi quando si accorgono che, nonostante tutto, il frastuono quotidiano rischia di raggiungerle e di travolgerle”.

Che cosa l'ha spinta a raccontare questa storia e cosa vuol dire a tutti coloro che convivono con una diversità, di qualsiasi tipo essa sia?

“Non vorrei che il libro passasse e venisse percepito solo e unicamente come una storia sulla sordità. Questo handicap c’è, naturalmente, ma vorrei che si capisse che il tema vero del romanzo è la difficoltà di comunicazione, a tutti i livelli, non solo tra sordi e udenti, non solo tra individui normali e individui svantaggiati. Se ci si fa caso, si scopre che nel romanzo le incomunicabilità maggiori si vengono a creare proprio all’interno della famiglia protagonista, e cioè tra madre e figlia che sono entrambe sorde, che parlano entrambe la lingua dei segni e che, per un bel pezzo del racconto, faticano a comprendersi, a entrare in sintonia, insomma a riconoscersi... E questo problema, questa difficoltà nel riconoscersi, è presente spesso ad ogni livello e in ogni famiglia”.

Attività di docente a parte, lei si è sempre diviso tra cinema e letteratura, e ha lavorato molto anche con suo padre Pupi. In che modo divide il suo tempo tra queste due passioni/occupazioni e ce n'è una che le piace di più?
“È una domanda che richiederebbe pagine di risposta perché riguarda molto il tema della identità, chi siamo veramente, come ci identifichiamo, argomenti da sempre affascinanti. Detto questo, io naturalmente non so chi sono. Mi piacerebbe poter dire di essere uno sceneggiatore, o comunque uno scrittore ma la verità è che non sta a me definirmi e che l’unico modo per essere definiti è calarsi all’interno di un Racconto. Nell’analisi del Racconto della nostra vita noi ritroviamo la nostra 'identità narrativa' che ci costituisce, poiché la comprensione che ognuno ha di se stesso è appunto narrativa: non posso cogliere me stesso al di fuori del tempo, e
dunque al di fuori del racconto... come ci insegnava Paul Ricoeur”.

Nel corso della sua attività professionale le è mai capitato di occuparsi anche di giocatori o di gioco?
“No, per ora no, non è escluso che accada in futuro”.

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