Si avvicina la fine dell’anno scolastico e al termine delle superiori per molti giovani c’è l’incertezza su come proseguire gli studi in vista di una collocazione nel mondo del lavoro.
Un settore poco conosciuto, in particolare dalla generazione dei genitori degli studenti che iniziano ad orientarsi verso le professioni creative, ma che offre sbocchi interessanti, è quello del videogioco, come mettono in luce le due recenti ricerche presentate dall’Osservatorio promosso dalla sede di Milano del network Sae Institute, leader globale da 40 anni nella formazione per i media creativi. L’accademia offre anche corsi triennali di game design e di game art.
Il dipartimento Games è nato nel 2018 con un corso biennale in Game art & animation e ha visto il lancio dell’attuale percorso triennale in Game production, con i corsi di Game art e Game design, nel 2019 registrando complessivamente ad oggi più di 70 iscritti.
Tra i docenti, la visual designer Claudia Molinari e lo scrittore creativo Matteo Pozzi sono alla testa di We are müesli, studio di game design indipendente che ha ottenuto negli anni numerosi riconoscimenti internazionali: dal premio Bosch art game 2013, con il videogioco narrativo Cave! Cave! Deus videt., alla selezione per l’Adi design index 2020, con l’escape room per il trentennale della caduta del Muro di Berlino Wer ist wer.
Questi titoli rientrano nell'ambito dei cosiddetti “applied games”, giochi con finalità educative, formative o di potenziamento, utilizzati appunto in diversi contesti culturali come nel turismo, in campo scientifico, aziendale, etc.
È di We are müesli, per esempio, la prima escape room ispirata all’opera di Gianni Rodari e progettata per i cento anni della nascita dello scrittore. Si trova nella Biblioteca di Verbania, è stata inaugurata lo scorso ottobre e verrà presentata il prossimo 20 maggio al Salone del Libro di Torino.
Spiega Claudia Molinari: “Il gioco prende spunto dalla sfida che Rodari stesso lancia alla fine del suo romanzo ‘C'era due volte il barone Lamberto’: come può continuare la storia raccontata nel libro? Abbiamo voluto creare un’esperienza che possa far tornare la voglia di amare le ‘parole buone’, come diceva Rodari. Nei nostri giochi la vittoria non è l’obiettivo in se’; identificandosi nei personaggi, si vive una situazione, storica, politica, esistenziale, arrivando a capirne davvero la dimensione umana”.
In aggiunta alla leva immersiva che letteratura e cinema operano nei loro utenti, il videogioco ha infatti un altro “superpotere”: fa scattare l'identificazione. Grazie all'interazione data dalle meccaniche di gioco, giocatori e giocatrici possono entrare completamente nel personaggio, vivendolo e interpretandolo in prima persona.
Tale tipo di dinamica si ritrova nel videogioco Venti mesi di We are müesli, opera commissionata dal Comune di Sesto San Giovanni: ambientata nel territorio milanese nel periodo della Resistenza, durante la seconda guerra mondiale, racconta venti microstorie di gente comune, in situazioni storiche anche profondamente drammatiche, come la strage di Gorla del 1944. In questo caso il giocatore, nei panni della protagonista, è costretto a scelte fatidiche – può salvare solo uno dei due figli della sua migliore amica dall'imminente bombardamento della scuola elementare dove si trovano - e ha poco tempo per decidere. È una situazione spiazzante, di forte impatto emotivo, che può avvicinare il pubblico di oggi a storie e dilemmi di quasi ottant'anni fa. In tal senso potremmo considerare Venti Mesi un’opera di alfabetizzazione civica.
Un’ altra significativa produzione di We are müesli di ispirazione storica è Wer ist wer, un'escape room presentata al Polo del ‘900 di Torino e al Teatro Triennale di Milano, ambientata in uno Stato distopico in cui contano solo le regole, come nella Ddr ai tempi del Muro di Berlino.
In un progetto a scopo sociale, il videogioco, in quanto medium immersivo e identificativo, può dunque essere utile per portare le persone a mettersi nei panni anche dei più fragili, delle minoranze.
Perfino il modo di parlare, di apparire, di comportarsi dei personaggi può contenere messaggi: basta un dettaglio per spostare opinioni, creare o scardinare stereotipi.
Lavorare nel game making offre insomma davvero diverse e ricche possibilità di espressione in ogni ambito, in un mercato che è in forte sviluppo.
Quali sono le attività coinvolte nel fare videogiochi?
Si può essere lo sviluppatore - che cura la programmazione e gli aspetti tecnologici del gioco - o il game designer; puoi essere il musicista che ne crea la colonna sonora o l’artist che ne realizza la grafica; serve specializzazione anche per gli effetti sonori. E poi c’è il producer, il project manager...
Una decisione importante però riguarda il tipo di carriera: se si vuole svolgere un lavoro nelle major “mainstream”, su scala industriale e commerciale, o se si vuole essere un creativo/creatore indipendente, come Claudia Molinari e Matteo Pozzi, perché questo orientamento guida anche la selezione dell’offerta formativa.
“Fino a 15 anni fa non c’erano percorsi di studio specifici nel settore - racconta Claudia Molinari-. Io ho seguito una strada alternativa a prescindere, nel senso che ho conseguito il diploma liceale a Cambridge e anche la laurea in Information and media science l’ho presa in Inghilterra. Al rientro in Italia ho studiato graphic design con impieghi in diversi ambiti, anche nella moda, ogni volta pensando di aver trovato la mia professione, e 'crederci' mi ha dato il vantaggio di studiare ogni mestiere in profondità. Poi nel 2013, in maniera informale, ho creato assieme a Matteo Pozzi, We are müesli, perché volevamo sperimentare forme di narrazione alternative, e i videogiochi ci sembravano il punto di partenza”.
L’industria del game making e in particolare quella videoludica, soprattutto in ambito indie, è tra le più inclusive ed è un’avanguardia che potrà dare certamente origine a nuove forme di comunicazione e di sviluppo artistico/culturale. “E per iniziare basta poco: una matita, un foglio”.