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Istat: 'Lotterie e scommesse, 53% attività a rischio operativo'

07 aprile 2021 - 14:19

Il nuovo Rapporto sulla competitività dei settori produttivi pubblicato dall'Istat evidenzia gli effetti della pandemia sulla tenuta delle imprese, comprese quelle del gioco e dell'intrattenimento.

Scritto da Redazione
Istat: 'Lotterie e scommesse, 53% attività a rischio operativo'

Il 53 percento delle attività connesse a lotterie e scommesse è "a rischio operativo" e quasi la metà di esse hanno una tenuta strutturale a rischio.

È quanto emerge dalla lettura del Rapporto sulla competitività dei settori produttivi pubblicato dall'Istat, giunto alla nona edizione, che fornisce un quadro informativo dettagliato e tempestivo sulla struttura, la performance e la dinamica del sistema produttivo italiano e alcune prime misurazioni degli effetti economici della pandemia.

Nel 2020, rimarca l'Istat, le misure necessarie per arginare la pandemia hanno determinato uno shock sull’economica mondiale che ha riguardato sia l’offerta (chiusura di attività e interruzione delle catene del valore), sia la domanda (crollo dei consumi, diminuzione dell’occupazione, riduzione dei redditi).

Scorrendo il Rapporto, consultabile integralmente a questo link, si scopre che in Italia il valore aggiunto è diminuito dell’11,1 percento nell’industria in senso stretto, dell’8,1 percento nei servizi, del 6,3 percento nelle costruzioni e del 6,0 percento nell’agricoltura.
Le cadute più marcate si sono registrate in alcuni comparti dei servizi: commercio, trasporti, alberghi e ristorazione (-16 percento); attività artistiche, di intrattenimento e divertimento, di riparazione di beni per la casa (-14,6 percento); attività professionali, scientifiche e tecniche, amministrative e servizi di supporto alle imprese (-10,4 percento).
Tra i settori manifatturieri, il comparto del tessile, abbigliamento e calzature ha subito il crollo più grave (-23 percento ), seguito dai macchinari e mezzi di trasporto (-15 percento). Gli alimentari e il farmaceutico sono stati gli unici settori a registrare incrementi di valore aggiunto (+2 e +3,5 percento rispettivamente).

Secondo i risultati della seconda indagine su “Situazioni e prospettive delle imprese nell’emergenza sanitaria Covid-19”, a fine 2020 il 32,4 percento delle imprese con almeno tre addetti riteneva ancora compromesse le proprie possibilità di sopravvivenza nei primi sei mesi del 2021; il 62 percento prevedeva ricavi in diminuzione e meno del 20 percento riteneva di non avere subito conseguenze o di aver tratto beneficio dalla crisi.
La crisi ha colpito soprattutto le unità di piccola e piccolissima dimensione: a fine 2020 si dichiaravano a rischio oltre il 33 percento delle microimprese (3-9 addetti), il 26,6 percento delle piccole (10-49 addetti), il 15,1 percento delle medie (50-249 addetti) e il 10,7 percento delle grandi (250+ addetti).
Per il 58,1 percento delle imprese con almeno tre addetti il principale vincolo alla ripresa nel primo semestre del 2021 è la diminuzione della domanda nazionale; per il 19,2 percento quella della domanda estera, per il 34,1 percento il rischio di illiquidità, cui provvedere anche attraverso nuove fonti di finanziamento (in particolare l’accensione di nuovo credito bancario).
La quota di chi segnala seri rischi di chiusura è elevata nelle attività delle agenzie di viaggio (oltre 73 percento), in quelle artistiche e di intrattenimento (oltre 60 percento), nell’assistenza sociale non residenziale (circa 60 percento), nel traporto aereo (59 percento), nella ristorazione (55 percento). Nel comparto industriale risaltano le difficoltà della filiera della moda: abbigliamento (oltre 50 percento), pelli (44 percento), tessile (35 percento).

Quasi 300mila unità (circa il 30 percento del totale con almeno tre addetti), in prevalenza microimprese industriali e dei servizi alla persona, sono state “spiazzate” dall’emergenza sanitaria e a fine 2020 non avevano ancora attuato concrete strategie di difesa. Il 25,8 percento (circa 260mila unità) ha reagito introducendo nuovi prodotti, diversificando i canali di vendita e di fornitura (anche con servizi online e di e-commerce), intensificando le relazioni produttive con altre imprese; il 20,9 percento (circa 213mila) ha riorganizzato processi e spazi di lavoro, accelerato la transizione digitale, adottato nuovi modelli di business; il 16 percento (oltre 160mila unità) ha ridotto i fattori produttivi o differito i piani di investimento.

L’evoluzione della crisi ha accelerato la trasformazione digitale, favorendo la diffusione di investimenti in server cloud e postazioni di lavoro virtuali (ora nel 27 percento delle imprese), software per la gestione condivisa di progetti (ora al 19 percento) e, dal lato della vendita, il ricorso all’e-commerce (17,4 percento delle imprese).
 
La pandemia ha anche accentuato il divario tra i sentieri di sviluppo delle imprese: tra le oltre 215mila unità con almeno 10 addetti, quasi 60mila che nel 2018 risultavano “dinamiche”, ad esempio per investimenti e transizione digitale, stanno reagendo con successo alla crisi in atto, accrescendo la distanza con le circa 68.500 che, già tendenzialmente “statiche”, si confermano tali nella nuova recessione. Queste ultime, per lo più di piccola dimensione, sono presenti in tutti i settori produttivi ma risultano relativamente più diffuse nelle costruzioni, nel commercio, nella ristorazione, nelle attività di intrattenimento e in altri servizi alla persona.
 
Una “mappa del rischio strutturale” del sistema produttivo, elaborata a partire dalle indagini sugli effetti della crisi, indica che il 45 percento delle imprese con almeno tre addetti (rappresentative del 20,6 percento dell’occupazione e del 6,9 percento del valore aggiunto complessivi) è a “rischio strutturale”: esposte a una violenta crisi esogena, subirebbero conseguenze tali da metterne a repentaglio l’operatività. Solo l’11 percento è solido, ma genera il 46,3 percento dell’occupazione e il 68,8 percento del valore aggiunto totali.
Nei servizi risulta strutturalmente fragile o a rischio circa il 50 percento delle imprese, con picchi elevatissimi in alcuni settori a bassa intensità di conoscenza: ristorazione (95,5 percento), servizi per edificie paesaggio (90 percento), altre attività di servizi alla persona (92,1 percento), assistenza sociale non residenziale (85,6 percento), attività sportive e di intrattenimento (85,5 percento). Nell’industria quote elevate si osservano in alcuni comparti a basso contenuto tecnologico: legno (79,7 percento), costruzioni specializzate (79,7 percento), alimentari (78,5 percento ), abbigliamento (73,2 percento).
 
Una parte non trascurabile di imprese fragili reagisce attivamente alla crisi riorganizzando processi, gli spazi, gli input di lavoro: nella manifattura, accade soprattutto nei settori di stampa ed editoria (circa il 21 percento delle imprese), carta (17,4 percento), elettronica (17,8 percento), apparecchiature elettriche (16,2 percento); nel terziario, in quelli di servizi postali e corriere (28,8 percento), attività culturali (24,5 percento), pubblicità e ricerche di mercato (17,4 percento).
 
La crisi pandemica ha avuto un impatto anche sulle strategie di finanziamento delle imprese che, per fronteggiare la crisi di liquidità, hanno utilizzato un insieme ampio di strumenti tra i quali il credito bancario ha svolto un ruolo centrale. Tali strategie appaiono però transitorie e legate alle conseguenze economiche dell’emergenza sanitaria: per il 60,5 percento delle imprese l’attivo rimarrà la principale fonte di finanziamento anche nel primo semestre del 2021, e dovrebbe proseguire la tendenza al deleveraging osservata nel periodo pre-crisi.
 

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