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Il grande errore italiano e il momento di correggerlo

14 gennaio 2019 - 10:12

Mentre il gioco pubblico è alle prese con un nuovo cambiamento, a Londra si esamina il 'caso Italia' dell’amusement.

Scritto da Alessio Crisantemi
Il grande errore italiano e il momento di correggerlo

Diciamo la verità: a guardarlo dall’esterno il gioco pubblico italiano appare non soltanto come un sistema altamente complesso e, quindi, difficile da decifrare, ma viene anche visto, spesso, come un modello “folle” per via delle troppe contraddizioni e delle numerose anomalie.

Specialmente adesso, e negli ultimi anni, dopo i cambi di indirizzo che hanno visto il legislatore cedere alle critiche di natura politico-mediatica (più che della vera e propria opinione pubblica) finendo col rimangiarsi, passo dopo passo, parte dei principi fondativi di quello che un tempo è stato uno dei migliori mercati d’Europa e del mondo, e ora non lo è più.

 

A partire dalla riserva di Stato, vituperata dal dilagare della "questione territoriale", fino al punto da far diventare alcune delle prescrizioni previste dagli enti locali come dei fondamenti da seguire ed estendere a livello nazionale.
E a farne le spese, oggi, sono gli addetti ai lavori, esercenti compresi. Ma anche i giocatori, visti i rischi che tutto ciò comporta in termini di ritorno dell’illegalità.
Ma questa è un’altra storia, per quanto preoccupante possa essere, e non a caso la seguiamo quotidianamente sulle nostre pagine: quello su cui vogliamo ora soffermarci, invece, è l’altra grande anomalia che riguarda l’altra parte del gioco pubblico, ovvero il settore del cosiddetto “amusement”, caratterizzato dall’offerta di gioco senza vincita in denaro. Cioè il puro intrattenimento. Fatto di videogiochi, flipper, calcetti e così via.
 
 
Un settore che - forse in pochi lo sanno - vedeva fino a qualche anno fa l’Italia come uno dei principali mercati al mondo, a conferma di quanto il nostro sia un popolo di giocatori, non necessariamente vittime del vizio, come spesso si vuole far credere, ma alla ricerca, evidentemente, di intrattenimento. Ora però non lo siamo più, quel mercato: con i numeri relativi alla distribuzione dei giochi senza vincita in denaro crollata nel tempo. Ma questo è accaduto non tanto e non solo per via dello spostamento verso il gioco a vincita della domanda e dell’offerta (e sarebbe interessante capire, su questo fronte, se è davvero la prima che condiziona la seconda, in questo caso, e fino a che punto..), ma anche e soprattutto a causa della normativa italiana che nell’assecondare il processo di regolamentazione e sviluppo del cosiddetto (volgarmente) “azzardo”, è finita col compromettere il puro intrattenimento.
 
Improntando norme difficilmente sostenibili, spesso addirittura assurde e in contrasto col resto del mondo, che hanno reso sempre più difficile importare videogiochi dall’estero (requisito fondamentale per il mantenimento di questo mercato, in cui le attrazioni sono tutte di matrice nipponica o americana), omologarli e metterli in circolazione.
Il tutto a causa di una specie di un’ossessione del controllo che ha visto il legislatore troppo spaventato dal rischio di trovare nei locali videogiochi che nascondevano videopoker, da non vedere i danni che effettivamente venivano causati a un’intera industria.
Ma anche all’intero Paese, visto che la scomparsa dell’offerta di gioco senza vincita in denaro lascerebbe come unica proposta di intrattenimento quella dell’azzardo. Che è proprio quello che tutti, in teoria, vorrebbero evitare. Ma è ciò che sta accadendo, e da anni. Senza che nessuno se ne preoccupi, al di là degli addetti ai lavori di questo settore, ormai confinato a pochi produttori ed operatori di sale giochi, almeno da noi.
 
Certo, chi conosce la storia del nostro Paese e di questo settore, ricorda perfettamente quando agli inizi del Duemila era molto frequente trovare nei pubblici esercizi dei videogiochi arcade che nascondevano videopoker e quindi era assolutamente da giustificare, all’epoca, l’atteggiamento del legislatore: ma è pur vero che oggi, tanti anni dopo, i videogiochi arcade sono pressoché scomparsi e l’offerta si è spostata quasi completamente su simulatori, guide e grandi attrazioni, che oltre ad entrare difficilmente in un bar, risultano anche difficili da modificare per nascondere un pokerino. Oltre al fatto che sarebbe del tutto folle visto i costi di un gioco di quel tipo che certo non varrebbe la pena alterare per renderlo un prodotto illegale. Ma ci sarebbe anche da sperare che quelle antiche pratiche illegali siamo culturalmente superate dopo tanti anni di battaglia all'illegalità, di emersione del sommerso e di espulsione della criminalità dal settore.
 
Eppure le norme non sono cambiate da allora, anzi. E nonostante qualche piccolo ritocco che ha avuto il merito di rendere semplicemente appena più rapide le omologazioni di videogiochi, il campo dei videogame che è possibile certificare in Italia è decisamente ristretto. Tanto da escludere le pratiche più in voga nel resto del mondo: come la possibilità di rimettere in circolazione i videogiochi arcade degli anni passati (si guardi al successo dei Barcade all’estero, non possibili in Italia) o quella ancora più assurda di omologare ticket redemption dotate di monitor, come lo sono ormai la maggior parte.
Eppure, è proprio rispetto alle ticket redemption che lo Stato italiano ha sempre dato il peggio di sé, relegando questa offerta di gioco - così popolare e diffusa in Italia e nel mondo - a un limbo non definitivo di pseudo-regole e in una sorta di regime di tolleranza che le rende da sempre parte di un settore a rischio.
 
Ma poiché al peggio non c’è mai fine, da qualche tempo ci si sono messe pure le Regioni a rendere tutto più difficile, con alcune norme locali che hanno iniziato a inibire questo tipo di giochi nei locali pubblici perché ritenuti degli strumenti di “induzione all’azzardo” per i più piccoli.
Per l’esplosione e la diffusione di un grande equivoco che ha trovato l’industria assolutamente incapace di far valere le proprie ragioni in un momento storico di lotta senza tregua e senza quartiere al gioco pubblico, dove non esiste confronto, dialogo e dove non viene fatto alcun approfondimento. A nessun livello.
 
Ed è proprio questo il “grande errore italiano” che finisce questa settimana sotto i riflettori internazionali grazie al dibattito organizzato all’interno della fiera Eag di Londra dedicato al “caso italiano” dell’amusement e delle ticket redemption in particolare. Se già fin dal principio agli operatori di altri Paesi appariva assurdo che in Italia il settore del puro intrattenimento venisse dato in mano alla stessa autorità che disciplina il gioco a vincita, adesso lo sconfinamento della '”questione territoriale” al mercato del videogioco appare ancora più incomprensibile.
Ma purtroppo, non lo è soltanto per gli stranieri. Anzi. Chiedetelo alle sigle che rappresentano le sale giochi italiane, alle imprese importatrici e produttrici di gioco, ma anche ai tanti giocatori che continuano a chiedere agli esercenti di riportare i videogiochi e i flipper nei loro locali e che si sentono dare risposte apparentemente incomprensibili. Spesso accolte come una mancanza di volontà o come una preferenza verso l’azzardo. Ma tant’è.
Ora però se è vero che la situazione potrebbe completamene precipitare con il dilagare di questa battaglia delle regioni contro le redemption, è altrettanto vero che quello attuale potrebbe rivelarsi il momento propizio per intervenire in maniera corretta nei confronti dell’amusement, se solo il Governo volesse ascoltare e comprendere determinate dinamiche: visto che incentivare l’amusement vorrebbe dire creare un’alternativa al gioco a vincita che si vorrebbe limitare (almeno in teoria). Certo, il riordino generale del gioco pubblico annunciato dal Governo potrebbe rappresentare l’occasione migliore e per questo ben venga il convegno di Londra per approfondire la materia e qualunque altra occasione si potrà presentare: sempre che il riordino arrivi sul serio. Insieme a quel cambiamento generale promesso dal nuovo governo, ma non ancora avvenuto.
 

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