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Il governo rompe gli schemi, il settore cerca unità

08 maggio 2023 - 10:41

L'esecutivo Giorgia Meloni continua sulla propria strada, andando a stravolgere le varie prassi istituzionali e cambiando vari approcci, come quello sul gioco: ma ora è il comparto a doversi far trovare pronto.

Diciamo la verità. Il gioco pubblico non è più un tabù. Non per il nuovo governo, a quanto pare, che sul tema non sembra mostrare le infinite titubanze alle quali si era abituati dalle precedenti legislature, caratterizzate da approcci fin troppo “prudenti”, che avevano finito col tramutarsi in totale lassismo, rasentando spesso una malcelata noncuranza e un ingiusticabile disinteresse. Adesso, invece, pare essere crollata anche l'ultima barriera e nella logica di totale rinnovamento che sta guidando l'esecutivo di Giorgia Meloni, a trovare spazio è anche il gioco pubblico, con la dichiarazione di intenti di arrivare a una riforma generale del comparto, messa nero su bianco attraverso la legge delega, che ha appena avviato il suo iter parlamentare, chiamando proprio in questi giorni i rappresentanti delle categorie della filiera in aduzione, per ottenere il loro punto di vista rispetto alle impostazioni iniziali della revisione impostata dal governo.

Anche se, ancora una volta, ci troviamo di fronte a un progetto di legge e a una dichiarazione di intenti, quindi davanti a una sorta di promessa o poco più, in attesa di passare salle parole ai fatti, a mostrare il cambiamento di paradigma sono state anche – e soprattutto – le dichiarazioni del vice ministro all'Economia e delle finanze, Maurizio Leo, che in audizione davanti alle Commissioni Finanze di Camera e Senato, illustrando gli obiettivi della delega fiscale, non ha risparmiato dettagli relativi agli interventi previsti sul gioco. Rivelando che la materia è stata trattata eccome nei Palazzi di governo, e mostrando anche di avere le idee piuttosto chiare su come intervenire. Dichiarando di voler “approfondire le tematiche di maggior interesse per i contribuenti, le imprese, gli autonomi”, senza “abbandonare il modello concessorio” rendendo “compatibile la tutela dell'ordine pubblico con la salvaguardia della salute, oltre a disciplinare il gioco online”.

Tutto questo all'interno di un cantiere di riforma molto più ampio e generale che promette di rivedere molte delle attuali impostazioni su cui si basa il sistema economico e produttivo del paese. Un passaggio doveroso, non soltanto in questo preciso momento storico di uscita definitiva dalla più grande delle emergenze economiche, provocata dalla pandemia e dai conflitti internazionali, quando si devono completare le allocazioni dei vari denari provenienti straordinariamente dall'Europa attraverso il Recovery Fund attraverso il Pnrr, ma anche per via dei numeri che caratterizzano la situazione del nostro paese, che non fanno certo onore a quella che continua comunque ad essere una delle più importanti economie all'interno dell'Unione. Guardando la mappa 2022 della competitività tra le regioni dell’Unione europea, appena pubblicata dalla Dg Politiche regionali della Commissione, quella che si disegna è un’Europa divisa sostanzialmente in tre gruppi: il primo composto dagli Stati membri dell’Europa centrale e nordici in cui tutte le regioni registrano un indice di competitività al di sopra della media Ue (Austria, Germania, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Danimarca, Svezia e Finlandia); nella classifica del Regional Competitiviness Index (RCI) ci sono poi i paesi dell’Est, in cui tutte le regioni sono al di sotto della media europea, tranne le regioni delle capitali; il terzo gruppo, è composto dai paesi del Sud, Italia compresa, in cui l’indice di competitività è sempre sotto la media europea, con cinque eccezioni (Catalogna, regione di Madrid e Paesi baschi in Spagna, Lombardia in Italia e l’area metropolitana di Lisbona in Portogallo).  Nel confronto limitato agli Stati membri, l’Italia che tra il 2016 e il 2019 aveva recuperato quasi tre punti (da 82,1 a 84,9), nel triennio successivo ha tirato leggermente il freno, perdendo poco meno di un punto (84,1). L’indice di competitività regionale misura la capacità di una regione di offrire alle imprese e ai residenti un ambiente attraente e sostenibile in cui vivere e lavorare, alla ricerca di un equilibrio tra economia e benessere, superando la discussione sul Pil come unico indicatore dello sviluppo. Ma non è l'unico dato negativo che caratterizza il nostro paese e i suoi territori: alle regioni italiane tocca anche il record europeo di "neet", ovvero di non impiegati cronici che hanno anche smesso di cercare un'occupazione. Nel 2021, ultima in assoluto era la Sicilia con il 30,2 percento, in peggioramento di quasi un punto rispetto al 2020. A seguire la Campania, con il 27,7 percento (28 percento l’anno prima). E risalendo, dopo una regione bulgara, troviamo la Calabria (27,2 percento). La media europea è del 10,8 percento (in miglioramento rispetto all’11,1 percento di un anno prima) ma in Italia solo la Provincia autonoma di Bolzano supera appena la media, fermandosi al 10,5 percento. Il problema dunque riguarda tutti, non solo il Sud. In Piemonte e nel Lazio, per esempio, i Neet sono il 17,7 percento: poco meglio in Lombardia, con il  17,3 percento, rispetto al 15,7 di un anno prima. L’Emilia-Romagna è al 13,5 percento. E' quindi probabile (e comprensibile) che il governo Meloni sia intenzionato a operare in concreto sulla ricostruzione dell'economia nazionale e sul recupero della competitività per non essere ricordato nella storia per via dei numeri catastrofici di cui sopra, che sono senz'altro figli della situazione emergenziale e precedente, ma che per essere modificati necessitano di interventi concreti e quindi di riforme. Come quelle che l'esecutivo ha promesso di voler realizzare.

Ma come sempre ci piace sottolineare, per puntare alla piena (e vera) sostenibilità, quale obiettivo centrale per l'intera filiera, l'industria del gioco pubblico dovrà farsi trovare pronto. Questa volta davvero. Dimostrandosi un interlocutore serio, responsabile e preparato ad affrontare questo cambiamento che potrebbe rivelarsi anche piuttosto radicale. Per farlo, il punto principale – ma anche di partenza – sarà quello dell'unità. Per poter affrontare il lungo percorso (almeno 24 mesi) che porterà alla riforma del comparto, il settore del gioco dovrà essere in grado di presentarsi al cospetto di governo e istituzioni (AdM compresa) come una “vera” industria e con una proposta collegiale, univoca, globale, che possa tenere conto di tutte le istanze delle varie categorie ed evitando così le solite e interminabili divisioni che hanno caratterizzato l'intera esistenza di questo settore. Serve unità, in poche parole, e una visione comune, insieme a una responsabilità collettiva che deve far gettare il cuore oltre all'ostacolo, stavolta che l'obiettivo sembra davvero a portata di mano. La politica, in varie occasioni, ha già fatto capire che le possibilità di dialogo e di confronto ci sono e saranno ben accette, in logica di concertazione: ma l'esigenza di un interlocutore unico, o almeno di una condivisione di intenti da parte dell'intera industria, sono alla base di ogni possibile trattativa. Evitando che non siano i conflitti interni (anche) stavolta, a far saltare il tavolo.

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