Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli Studi di Torino e senatore nelle file del Partito democratico, Andrea Giorgis è autore di vari scritti in tema di diritti fondamentali, di forma di governo e di giustizia costituzionale.
In virtù della sua esperienza, sia come costituzionalista sia come politico (ricoprendo anche l'incarico di sottosegretario di Stato al ministero della Giustizia nel Governo Conte II), gli abbiamo posto alcune domande anche in materia di riordino del gioco pubblico e un bilancio sull'operato complessivo del Governo Meloni, compresa la riforma fiscale. Senza dimenticare la legge regionale sul contrasto alla ludopatia del Piemonte in vista delle prossime elezioni.
Lei si è occupato di tante questioni riguardanti il nostro ordinamento, che idea si è fatto delle riforme promosse e avviate dal Governo Meloni (premierato, giustizia, burocrazia etc)?
“La proposta di riforma costituzionale avanzata dal Governo Meloni (S.935), imperniata sull’elezione diretta del presidente del Consiglio e la contestuale elezione di una consistente maggioranza parlamentare a esso collegata, è una proposta che tende a ridurre la partecipazione politica al momento elettorale e alla investitura del capo, a concentrare in quest’ultimo il potere e a irrigidire l’assetto e l’azione delle istituzioni politiche, ed è una proposta che alla fine rischia di rendere la nostra democrazia meno partecipata, meno plurale, meno flessibile e quindi, oltre che meno democratica, ancora più fragile.
Con l’elezione diretta del presidente del Consiglio, e la contestuale elezione di una 'sua' maggioranza parlamentare (di almeno il 55 percento dei seggi) eletta per 'trascinamento', si passerà infatti dalla primazia del Parlamento e del pluralismo che in esso trova rappresentanza e composizione, alla primazia del Governo e in particolare dell’Uno/a; e tale ribaltamento determinerà un irrigidimento dell’assetto e dell’indirizzo politico che inevitabilmente si ripercuoterà anche sulla posizione del presidente della Repubblica, riducendo e marginalizzando la sua preziosa funzione di moderazione e di 'motore di riserva' nelle situazioni di crisi.
È un cambiamento radicale, non solo della 'forma di governo', ma del modello di democrazia.
Ed è un cambiamento che temo non renderà affatto la nostra democrazia più forte e partecipata, ma solo più conflittuale e meno capace di svolgere quella straordinaria funzione emancipante che può svolgere quando non viene ridotta alla scelta del capo ma è quotidiana partecipazione critica e riflessiva.
Più impegnativo, ma preferibile perché alla fine più efficace, è perciò rimanere nel solco della forma di governo parlamentare e della maggior parte delle democrazie occidentali e, in tale prospettiva, cercare di rafforzare il ruolo e la capacità rappresentativa e di indirizzo del Parlamento: riformando l’attuale bicameralismo paritario e razionalizzando il rapporto Parlamento-Governo, anche attraverso l’introduzione della sfiducia costruttiva; al contempo, predisponendo una nuova legge elettorale che valorizzi il potere di scelta dei candidati da parte degli elettori; ed una moderna e avanzata disciplina dei partiti in grado di garantire trasparenza, democrazia interna e autonomia dal potere economico.”
Tempo fa lei ha detto che “il combinato disposto della riforma fiscale e di autonomia differenziata rischia di compromettere l'unità del Paese e l'effettivo esercizio di diritti fondamentalissimi”. In che modo?
“Il Ddl Calderoli presenta lacune e contraddizioni molto serie e, se non verrà modificato in profondità, farà solo crescere ulteriormente divisioni e disuguaglianze già troppo profonde, penalizzando cosi tutte le regioni, comprese quelle più ricche. Ciò principalmente per due ragioni.
Perché non è accompagnato da (e anzi espressamente esclude) alcun serio investimento per garantire l’effettiva attuazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che (ai sensi dell’art.117, lett.m Cost.) devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, e quindi da alcun serio investimento per rimuovere le profonde disuguaglianze nell’accesso a beni e servizi essenziali che attraversano il Paese; e perché, al tempo stesso, prevede che sia possibile attribuire a una o più regioni la competenza legislativa anche in materie che è del tutto irragionevole e controproducente che siano definite a livello ragionale (e tanto più in via esclusiva): quali vantaggi avrebbero i cittadini e le imprese, anche delle regioni più ricche e infrastrutturate, dall’essere sottoposti a una specifica e particolare disciplina, diversa da quella che vige in altre regioni, in materie come ad esempio la 'produzione e distribuzionale nazionale dell’energia' o la tutela e sicurezza del lavoro, o le grandi reti di trasporto o l’istruzione a partire dalla sue norme generali, o la tutela della salute?
Difficile trovare una risposta e individuare un qualche vantaggio dall’avere discipline radicalmente diverse in tali materie.
Per quanto riguarda la tutela della salute, la pandemia dovrebbe peraltro averci insegnato qualcosa e fatto comprendere tutti gli effetti negativi dell’impoverimento delle strutture pubbliche e delle loro eccessive differenziazioni; così come i crescenti tempi di attesa o la mobilità sanitaria che arrecano un danno a tutti: a chi rinuncia alla cura, a chi è costretto a rivolgersi alle strutture private, a chi deve intraprendere lunghi e costosi viaggi per curarsi, al bilancio della Regione alla quale costoro appartengono poiché deve comunque farsi carico del costo delle cure che non è in grado di erogare, e ai cittadini e alle strutture sanitarie delle Regioni di accoglienza che sono così sottoposte a un eccesso di richieste.
Il Ddl Calderoli, inoltre, non chiarisce se le Camere possano emendare le eventuali intese o possano solo pronunciarsi con sí o con un no, e soprattutto non garantisce alcun effettivo ruolo alle Camere nella fase di definizione delle intese. Come nel Premierato, il Parlamento viene marginalizzato e posto 'sotto' il Governo.”
Parlando di riforma fiscale, fra le misure previste e in via di attuazione c'è anche il riordino del gioco pubblico. Secondo lei cosa dovrebbe prevedere quest'ultimo, per sommi capi per contrastare efficacemente il gioco patologico?
“Una seria politica di contrasto alla diffusione del gioco d’azzardo patologico, e di tutela dei soggetti più fragili, credo che debba cercare di disciplinare in maniera efficace ed equilibrata anche e soprattutto l’offerta. La spesa e la dipendenza patologica negli ultimi anni sono cresciute in modo preoccupante, e con esse i problemi socio-sanitari, anche perché è cresciuta l’offerta, in termini di luoghi, strumenti e pubblicità. Nelle regioni, come il Piemonte, ove sono state abrogate le norme che avevano cercato di porre dei limiti – come, ad esempio, distanze minime tra i locali con le slot machine o le videolottery e i luoghi 'sensibili' (come le scuole, i centri anziani, i bancomat e compro-oro, gli ospedali, ecc..) - i giocatori, la spesa e i problemi sociali ed economici sono aumentati sensibilmente.
Non si tratta di proibire il gioco, sia chiaro, ma di regolamentarlo e di scongiurare il rischio che diventi fonte di dipendenza patologica e di povertà, per un numero di persone sempre più consistente.
Naturalmente la disciplina per essere efficace non può essere rimessa integralmente alle regioni e ai comuni, ma deve essere definita, perlomeno nei suoi principi fondamentali, a livello nazionale e deve cercare di affrontare in maniera coerente tutti i diversi e complessi profili della materia, da quelli della tutela dei soggetti più fragili e della regolamentazione dell’offerta, a quelli dell’accesso al gioco e della cura, a quelli fiscali e della pubblicità, senza trascurare la prevenzione e il contrasto del gioco illegale e delle attività di riciclaggio.”
Cosa ne pensa della decisione del Governo di privilegiare il riordino del gioco online per poi poter lanciare il nuovo bando per le concessioni modificando tantissimo il mercato?
“Gli interventi distorsivi del mercato non possono essere arbitrari o irragionevoli, e questo non lo dice il Pd ma lo dicono le regole europee. La tutela della concorrenza richiede che le restrizioni e le limitazioni (dirette o indirette) siano giustificate dal perseguimento di evidenti interessi pubblici e/o dalla tutela di fondamentali diritti dei cittadini.
Detto questo, che il soggetto concessionario sia grande, medio o piccolo non dovrebbe essere di per sé dirimente. È dirimente che dia solide garanzie di affidabilità e serietà, e che non possa violare o eludere le norme che dovrebbero disciplinare il gioco d’azzardo e contrastarne gli effetti sociali più deleteri e dannosi.”