“Era una storia che avevo lì, pensavo di riuscire a svilupparla prima, ma evidentemente prima dovevo vivere”. Efraim Medina Reyes parla così del suo ultimo romanzo, che si intitola La miglior cosa che non avrai mai, uscito a novembre 2024.
Molto conosciuto nel nostro Paese in particolare dopo il successo del suo primo romanzo, C’era una volta l’amore ma ho dovuto ammazzarlo, l’autore proprio in Italia ha finito per trasferirsi, seguendo l’amore.
“Ho conosciuto mia moglie in Colombia”, racconta, “dove lei lavorava, a Bogotà, per un’associazione che si batteva per la difesa dei diritti umani. Ora mi divido tra Italia e Colombia, mio paese d’origine.”
E fortissimo è il legame con la Colombia, appunto, anche nella sua scrittura, soprattutto quello con la Colombia di qualche anno fa, un paese in guerra, difficile, pericoloso.
“Sono cresciuto in una famiglia povera, in un quartiere marginale. Fin da piccolo mi sono trovato ogni giorno a dover cavarmela per sopravvivere, quindi con una storia molto lontana da quella di un intellettuale.”
Il suo stile è stato definito un realismo sporco, ma lei si è sempre dichiarato distante da tradizioni e paragoni.
“Sì, mi sento uno scrittore giocatore, nel senso che amo prendermi i miei rischi. Rischi che sono nel mio essere indipendente nei modi, indipendente dalla tradizione e dalle accademie. In questo senso, prendendo la mia strada, me la sono sempre giocata tutta. Certo, per me sarebbe stato molto più facile mettermi all’ombra di Gabriel García Márquez, di Mario Vargas Llosa o di altri, ma io non sono nato come scrittore. Non ho fatto corsi e nemmeno l’università.”
Da dove nasce quindi la sua scrittura?
“Mi è venuta questa inclinazione, quest’impulso di scrivere, e l’ho sviluppato dentro di me portando in quello che scrivo la visione della vita che avevo io e la gente con cui sono cresciuto. Poi amavo i fumetti, da ragazzo erano spesso il mio rifugio, e nei loro eroi, che spesso fanno i conti con la solitudine, si rispecchiano spesso anche i miei personaggi. Basta pensare a Superman, rimasto orfano: per salvarlo lo hanno mandato nel peggior pianeta che gli potesse capitare. Come lui anche io, la mia generazione, che racconto, abbiamo dovuto crearci una doppia personalità per cercare di scappare da una realtà terribile.”
E così, per lei, la scrittura è diventata un qualcosa di biologico…
“Parlo molto di me, della mia storia, anche se i miei romanzi non sono autobiografici. Ho visto nascere intorno a me i grandi cartelli della droga, la guerriglia, i paramilitari. Ho vissuto un mondo dove uno si svegliava la mattina, usciva di casa, e non poteva avere la certezza di ritornarvi. Tanti infatti non vi sono tornati a casa, in quegli anni. Al mattino, da piccolo, andavo a scuola e spesso capitava di trovare un cadavere per strada.”
Ecco, difficile ora chiederle: che rapporto ha con il gioco?
“In realtà ho un rapporto bellissimo con il gioco. Penso ai videogame ad esempio: il mio percorso è come quello di tanti altri ragazzi, iniziando dalle sole giochi negli anni Novanta, con il gruppo di amici con cui poi ho iniziato a suonare. Poi, una volta arrivato in Italia ho cominciato ad appassionarmi al poker, che poi è finito anche nel mio ultimo romanzo.”
Quale miglior collegamento, quindi, per la domanda successiva. Cosa ci può raccontare di questa sua ultima fatica letteraria?
“Avevo un po’ di cose da sviluppare. Cose che erano rimaste in sospeso nel mio primo libro, e che ora riprendo, a oltre vent’anni di distanza. Si parla molto di gioco, di poker in tal caso, che è un gioco particolare, perché giocando a poker si finisce con il conoscere di più i propri compagni che la propria moglie. Sei costretto ad approfondire questa conoscenza se vuoi sopravvivere, se vuoi vincere qualche partita. Il poker mi piace per questo, c’è l’azzardo, la fortuna, ma è anche un gioco molto psicologico. Lo trovo un gioco molto vicino alla letteratura, perché nel poker tu devi per forza sviluppare un personaggio, creare dei modi per ingannare l’altro.”