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Non c'è peggior Stato di quello che non vuol sentire

18 marzo 2019 - 10:04

Lo Stato continua a far orecchie da mercante in materia di regolamentazione del gioco pubblico: tra pronunce basate sul “sentire comune” e richieste inascoltate.

Scritto da Alessio Crisantemi
Non c'è peggior Stato di quello che non vuol sentire

 

Tra decisioni politiche e sentenze, questo marzo potrà essere ricordato come il mese horribilis per il comparto del gioco pubblico. Nonostante lo slancio offerto dalla fiera Enada Primavera, ancora una volta in grado di rappresentare un'industria ancora viva e nient'affatto decisa ad arrendersi, il mese corrente è stato caratterizzato da una serie di decisioni che rischiano di compromettere definitivamente il comparto. Anzi, appare forse fuori luogo parlare di decisioni, di fronte a uno Stato che, com'è ogni giorno sempre più evidente, sul tema del gioco ha scelto di non decidere. E' evidente dalle (mancate) politiche condotte dal governo, con una serie di repentini aumenti della tassazione mai accompagnati da una riforma, nonostante i ripetuti annunci di un Riordino generale.

Ma è altrettanto palese nelle diverse pronunce che si stanno alternando nei vari tribunali italiani, in cui il gioco è finito sotto accusa: da Bolzano a Milano, passando per Emilia-Romagna e tanti altri ancora. Nel primo caso, in realtà, stavolta è stato il Consiglio di Stato ad esprimersi, giudicando una volta per tutte la legge della Provincia autonoma, legittimandola in via definitiva, dopo un'attesa durata oltre sei mesi, durante i quali i giudici hanno dovuto valutare l'eventuale effetto espulsivo provocato dal distanziometro adottato dal legislatore locale. Un effetto che, sentenza alla mano, non si verificherebbe, perché non è stata provata la totale inibizione del gioco locale, cioè l'espulsione generale del gioco nel 100 per cento dei casi. Come se il 95 percento di inibizione del territorio, dimostrata su ben 48 comuni del territorio in questione, non fosse sufficiente a dimostrare il carattere proibizionista della legge. Eppure, tant'è. E ancora una volta si è scelto di non scegliere. Seguendo, di fatto, la linea del governo, che sulla stessa materia si sta comportando in modo identico. Lasciando che tutto proceda da sé: rinunciando, evidentemente, a quell'atteso riordino che l'industria continua ad auspicare, pur facendosi sempre più largo il timore e, forse, la dura consapevolezza, di trovarsi di fronte a una nuova Chimera. L'ennesima, per giunta, dopo anni di attese e di promesse che la politica non ha mai mantenuto.
Certo, va detto, quando si opta per la linea opposta, cioè quella decisionista, le cose non vanno affatto meglio. Anzi. Come accade a Milano, dove il Tribunale amministrativo regionale ha legittimato le restrizioni orarie impartite dal legislatore locale sugli apparecchi da gioco, ritenendolo uno strumento utile per ridurre la diffusione delle dipendenze da gioco: anche se le evidenze scientifiche dimostrano il contrario, evidenziando come i giocatori, di fronte a una riduzione dell'offerta, non fanno altro che spostarsi verso altre forme di gioco, molto spesso anche illegali. Ma la circostanza non è stata neppure presa in considerazione dai giudici che, al contrario del governo, hanno deciso. Come ha fatto, del resto, anche la Regione Emilia-Romagna, pronta a licenziare e attuare in maniera definitiva la propria legge sul gioco che sancisce il divieto ai minori delle cosiddette “ticket redemption”: ovvero, quei giochi pensati esclusivamente per i più giovani, che a loro stessi vengono vietati.
Tutto questo, per giunta, sulla scia dell'altro verdetto proveniente dal Tar emiliano che ha legittimato, anche qui, la legge locale contro le sale da gioco per il semplice fatto che non sono state comprovate le effettive ricadute economiche da chi ricorreva contro la norma restrittiva.
Insomma, la linea anti-gioco continua a diffondersi sull'intera Penisola, come pure la prassi di non decidere: aggirando i problemi all'origine, come sembrano fare alcuni giudici, smarcando le questioni reali con pronunce legate alla forma e non alla sostanza. Oppure, peggio ancora, evitando direttamente di esprimersi sul tema, come il governo gialloverde insegna: e come potrebbe continuare a fare, almeno fino alle prossime elezioni europee. Sempre se non emerga prima qualche altra esigenza di cassa che costringa a ricorrere un'altra volta al “bancomat” del gioco pubblico. Ammesso che ci siano ancora margini per farlo.
 

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