The Guardian, in una inchiesta di qualche giorno fa, ha parlato chiaramente di "teen recruits", reclute adolescenti. Sotto accusa sono esercito, marina e aeronautica degli Stati Uniti, che promuovono, non da adesso, campagne sui social e tramite i videogame per trovare forze nuove.
D'altronde le forze armate americane dopo la guerra in Vietnam possono contare solo sui volontari, e i volontari vanno convinti, soprattutto se l'attività è impegnativa, e molto rischiosa, come quella che può portare a far la guerra da qualche parte nel mondo.
Per questo rivolgersi agli appassionati di videogiochi è diventata una precisa strategia di marketing, anche puntando sul fenomeno emergente degli esports, per provare ad attirare giovani reclute, meglio se già incuriosite dalle tecnologie e dalle innovazioni che fanno parte da sempre degli scenari bellici.
Non si tratta di una novità assoluta, come accennato. Il team esports Goats & Glory, composto da personale della marina Usa, è stato fondato infatti nel 2019, e da anni la marina usa i videogiochi per addestrare marinai e marines da anni e che l'Office of Naval Research sta sponsorizzando la ricerca per comprendere meglio gli effetti cognitivi dei videogiochi. Più di recente anche l'aeronautica e la guardia costiera hanno formato squadre di esport.
I player professionisti della marina, ad esempio, si cimentano in competizioni su Call of Duty e Rocket League, e la loro squadra partecipa spesso a tornei nazionali oltre a organizzare visite nelle scuole, dove si presentano anche giocando con titoli come Mario Kart o Tekken, sicuramente più alla portata dei giovani.
Ci sono anche studi specifici, come quello realizzato dal National Center for Biotechnology Information (Ncbi) un paio d'anni fa, secondo il quale soldati più giovani che sono cresciuti giocando ai videogiochi da una parte potrebbero essere maggiormente a rischio per la sottovalutazione dell'impegno fisico (tra uniforme, armi e equopaggiamento, un soldato può aver addosso anche 30 o 40 chili di materiali), ma potrebbero anche aver potenziato migliori capacità cognitive che risulterebbero utilissime in ambito bellico.
Così, secondo l’inchiesta pubblicata un paio di settimane fa dal Guardian, la marina statunitense è arrivata ora a destinare, annualmente, tra il 3 e il 5 percento del suo budget dedicato al marketing (pari a 4,3 milioni di dollari) a iniziative promozionali legate all'ambito esportivo, ingaggiando anche degli influencer per attività promozionali sui social.
La cosa, ovviamente, ha scatenato alcune associazioni pacifiste, soprattutto considerando che, anche se ufficialmente l'esercito Usa non recluta minori di 17 anni, tramite i social avvengono interazioni, le pubblicità sono mirate e talvolta coinvolgono i videogame più famosi, inoltre i militari parlano anche nelle scuole, direttamente con i bambini.
Tra chi si schiera contro questo tipo di iniziative c'è anche chi la vita in divisa la conosce bene, magari anche per aver vissuto la guerra in prima persona, come coloro che hanno dato vita all'associazione Gamers for peace, videogiocatori, ma soprattutto veterani tra i 30 e i 40 anni, secondo i quali l'influenza di un videogioco può essere pericolosa, perché abitua i più piccoli a certe scene, e a determinate azioni.
Dopo il divieto di reclutamento su Twitch proposto dalla deputata democratica Alexandria Ocasio-Cortez (che non è stato approvato) c'è stato un allentamento, con l'esercito che ha smesso di trasmettere su Twitch, ma ha continuato a utilizzare i videogame.
La questione resta sicuramente aperta, in particolare ora che l'intelligenza artificiale ha reso l'utilizzo dei computer ancora più fondamentale anche in ambito bellico. Basti pensare che Libratus, il bot che ha sconfitto 4 poker player professionisti, è finito a far da supporto al programma dell'esercito Usa Defense Innovation Unit. Con i videogame che, dunque, diventano solo uno strumento (l'ennesimo) che può essere utilizzato con scopi diversi (più o meno pacifici) da quelli per i quali magari era stato ideato, ossia lo svago e il divertimento.