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Il tramonto del Liberalismo e la fine dei giochi

10 settembre 2018 - 09:24

Dopo il Decreto Dignità l'industria del gioco pubblico ha bisogno di riorganizzarsi e immaginare un nuovo futuro: ma come ogni cura, c'è bisogno prima di un'attenta diagnosi.

Scritto da Alessio Crisantemi
Il tramonto del Liberalismo e la fine dei giochi

 

Chi lavora nel settore gioco pubblico, a vario titolo, in questi giorni si trova ad avere “i punti di vista di un uomo che cade dalla finestra", per dirla con Ernst Jünger. All'indomani dell'emanazione del Decreto Dignità che impone un vero e proprio Diktat sul comparto, tra il divieto totale di pubblicità e le nuove misure sugli apparecchi da intrattenimento, e in attesa di veder entrare in vigore a tutti gli effetti la totalità delle disposizioni (quelle delle sponsorizzazioni, come noto, si concretizzeranno a partire dal 2019, mentre quelle sulle slot dal 2020), per gli addetti ai lavori non ci sono più certezze, né tanto meno indicazioni su quello che potrà essere il futuro dell'industria. Ammesso, peraltro, che di futuro si possa davvero parlare. A qualche mese dalla costituzione del nuovo governo che ha condotto il paese nelle convulse ed eccentriche lande del populismo, l'industria del gioco si trova a dover ripartire pressoché da zero: in un paradigma – politico ed industriale – dove niente è più “ovvio” come lo era fino a qualche tempo fa.

Ed è proprio quello che sta accadendo nel mondo (seppure molto più in piccolo, nel nostro caso), alle principali democrazie, con lo sgretolamento di quel patto civile che per sessant'anni ha consentito all'Occidente di governare le sue crisi, che sta andando in frantumi sotto la spinta disgregatrice dei populismi: da Trump alla Brexit, fino al “nostro” Movimento 5 Stelle, che in tandem con la Lega, riesce ad essere ancora più “disruption” di quanto si potesse immaginare.
Uno scenario che Edward Luce, autorevole editorialista del Financial Time, ha stigmatizzato come: “Il tramonto del liberalismo Occidentale”. In uno scenario ben più ampio e trasversale, è evidente, ma del quale la deriva dei giochi (e dell'approccio del legislatore rispetto a questo mercato) ne è senz'altro una conseguenza. E se l'analisi di Luce, nell'illustrare con chiarezza la crisi del liberalismo, ci spiega come i populismi che proliferano in Europa e in America sono un sintomo di questi problemi, e non la causa, analoghe riflessioni possono essere condotte anche nel piccolo del settore. Perché non si può guarire senza una diagnosi, per quanto severa possa apparire. Ed è proprio quello che deva fare l'industria del gioco ed i suoi componenti. Abbandonando quell'errata convinzione – tipica dei “sistemi dominanti” e delle élite che domina(va)no i principali sistemi democratici, che il sistema dovesse durare per sempre. Ora non è più così: e il sistema (del gioco, e non solo) se vorrà davvero durare, dovrà cercare altre strade, rinnovandosi ed evolvendo, al passo con i tempi. Cambiando anche rotta, se necessario: magari diversificando ed ampliando gli orizzonti, ma in ogni caso, comunque, modificato la sua attuale impostazione, che non può più reggere. Anche se è impossibile, ad oggi, proporre soluzioni preconfezionate, che come dice lo stesso Luce in altri campi (ma non del tutto), non possono essere individuate con semplicità: certo che per porre rimedio ai problemi delle società capitalisticamente avanzate, qualunque soluzione proponibile abbia “i suoi limiti”. Proprio come nel gioco, in cui si alternano ormai da tempo una serie di proposte e pseudo “soluzioni”, spesso anche bizzare, ma mai davvero efficaci: dal distanziometro degli Enti locali (che rischia addirittura di essere preso a modello dal governo) alla disciplina sugli orari, al divieto totale dell'offerta fino alla scomparsa della pubblicità. Invece, come dice Luce a proposito del problema della disoccupazione, i governi dovrebbero “prima capire l’enormità di ciò che hanno di fronte” e, successivamente, considerare che la questione più grande che dovranno risolvere riguarda il “futuro della politica”.
Tutto questo per dire che il declino del sistema del gioco pubblico è da intendere come qualcosa di più profondo rispetto ad un puntiglio a scopo puramente elettorale e di più ampio rispetto ad una mera questione politica nazionale. Provando a guardare anche all'esterno del nostro paese (e del nostro orticello), alla ricerca di spunti e riflessioni che possono provenire dalle esperienze di altri paesi, ma anche per evitare quella contaminazione dall'Italia al resto d'Europa, peraltro auspicata dal vice premier Luigi Di Maio, che potrebbe portare logiche abolizioniste che caratterizzano l'attuale linea del nostro paese anche in altre realtà. Nonostante le fondamenta democratiche e giuridiche ben più solide di altri paesi europei facciano apparire impensabile l'applicazione di un provvedimento così drastico e rigido come quello appena emanato dal nostro governo, non può sfuggire come il fronte “anti-gioco”, cullato dalla promessa di maggior tutela per tutti, sembra attecchire nella dominante “cultura” populista ormai così in voga a livello generale (forse anche in virtù di quel “decadentismo” culturale di cui si occupa Luce nel suo saggio citato poc'anzi), ed è da queste ulteriori derive che il settore deve oggi salvaguardarsi, cercando (anche) all'esterno le vie di una possibile salvezza. Emblematico, in questo senso, il messaggio lanciato dall'Ad del colosso britannico William Hill, Phillip Bowcock, il quale in una recentissima campagna lanciata sui media, ha spiegato come: “l’industria non ha preso sul serio la sfida del gioco problematico”. Evidenziando come “Per troppo tempo abbiamo parlato di responsabilità individuali dei giocatori e di un numero ridotto di persone a rischio. Il risultato è che solo in Uk, secondo Gamble Aware, circa due milioni di persone sono a rischio e che la fiducia dell’opinione pubblica verso l’industria è crollata negli ultimi 5 anni”.
Secondo il numero uno dello storico bookmaker, “Il gioco deve tornare ad essere una attività di intrattenimento, non una fonte di miseria per le persone”: per farlo, però, l'industria deve riconoscere la parte nascosta ed oscura del gioco. Perché è quello che la società civile di oggi si aspetta dalle imprese.  
La sopravvivenza dell'industria del gioco, dunque, passa proprio da qui: in un settore che sappia davvero  difendere i propri clienti, non solo per un'esigenza di tutela della salute e del risparmio della cittadinanza (materia di cui, in realtà, si occuperebbe lo Stato), ma anche per garantire un futuro alle stesse aziende. Ma sarà bene che l'intero comparto, soprattutto in Italia, capisca presto questi aspetti, puntando a una nuova “rivoluzione industriale”, che sarà possibile solo se accompagnata da un'autentica rivoluzione culturale.

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