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Contro le soluzioni rapide e le speculazioni, intervenga lo Stato

08 luglio 2013 - 10:14

Una tragedia non ammette altre definizioni. E di questo si parla, quando si affronta la terribile vicenda del ragazzo di 19 anni di Ischia (Mario Castaldi, perché le vittime hanno sempre un nome e cognome, da non dimenticare), che si è tolto la vita dopo aver speso i propri risparmi al gioco – come lui stesso ha scritto nel biglietto di addio lasciato alla mamma. Una storia orribile da raccontare e impossibile (quanto meschino) sarebbe l'idea di minimizzare. Ma sia chiaro: che non venga strumentalizzata per perseguire battaglie (pseduo)ideologiche, come quelle mirate all'abolizione del gioco. E non certo per portare una 'difesa d'ufficio' all'industria dell'intrattenimento (o dell'azzardo, come la chiamano in molti). Quanto, piuttosto, perché tale, presunta, “soluzione”, produrrebbe l'effetto esattamente contrario.

Scritto da Alessio Crisantemi

Ovvero, quello di concedere campo libero all'offerta di gioco illegale, quella sì, senza controllo e senza limiti di vincita (o perdita) stabiliti per legge. Questo per dire, come si è ribadito più volte e in varie sedi, che fare marcia indietro oggi, nei confronti del gioco pubblico, non significherebbe 'disabituare' gli italiani a giocare (o, al massimo, l'effetto in questo senso sarebbe minimo), ma porterebbe soltanto a una “sostituzione” dell'offerta di gioco lecito con quella di gioco illegale. Certo, i controlli in materia di illegalità nel comparto giochi aumentano esponenzialmente di anno in anno, grazie all'aumento dell'esperienza e delle risorse destinate da parte dell'autorità competenti in questa direzione, ma basta guardarsi attorno e sfogliare i giornali per vedere la realtà del nostro paese, che appare ancora oggi incapace di contrastare concretamente l'evasione fiscale, il lavoro nero e altre irregolarità che avvengono, quotidianamente, più o meno sotto la luce del sole. Figurarsi come poter intervenire, in tempi rapidi e con strumenti concreti, per mettere a freno la diffusione del gioco illegale. Non bisogna mai dimenticare i circa 800mila videopoker stimati dalla Commissione parlamentare d'inchiesta nel 2003, che sono stati “sostituiti”, nel processo inverso, dalle circa 380mila new slot legali attualmente in attività. Senza contare, peraltro, l'esempio che viene dato, in questo senso, dal poker 'live', che viene giocato in centinaia di locali pubblici e privati italiani, seppure in assenza di una regolamentazione definitiva.
E' dunque evidente che, la soluzione al “problema” gioco, non può passare per la sua eliminazione (o, meglio, per l'eliminazione di quello legale); come pure nessun beneficio può essere fornito nel criminalizzare la filiera produttiva del gioco pubblico di fronte a ogni episodio di cronaca (e qui vale l'esempio delle automobili: nonostante l'altro numero di vittime, per lo più giovani, che si sussegue da anni a causa dell'elevata velocità, non si è mai sentito proporre una produzione e vendita di macchine meno potenti o dotate di un limitatore di velocità, come pure nessuno si sognerebbe mai di dire che le case produttrici di veicoli sono criminali). La soluzione, come proviamo a dire da tempo, può essere solo e soltanto di natura politica: è arrivato il momento (e da lungo tempo, peraltro) di creare e diffondere una cultura del gioco e del gioco responsabile. Che comprenda e riguardi i cittadini, quali consumatori della filiera, ma anche (e soprattutto) gli esercenti e operatori coinvolti in questo mercato. Fino ad arrivare, però, ai politici; i quali, forse per primi, dovrebbero mostrare competenza quando si affronta un argomento così diffuso e così rilevante in termini di vita sociale (oltre che economica), come il gioco.
I punti di partenza e le strategie in questo senso sono molteplici: e un esempio concreto ci arriva, in questi giorni, dalla Regione Emilia Romagna (ancora una volta esemplare dal punto di vista dell'attenzione e delle iniziative sui problemi di carattere sociale ed economico), che nella sua regolamentazione regionale introduce spunti fondamentali come la formazione degli operatori del comparto del gioco, potenziare gli interventi e dotarsi di strutture per la prevenzione e cura del gioco patologico (e tanto altro) oltre, naturalmente, a invitare la popolazione a giocare “di meno”. O, almeno, di non fare del gioco una ragione di vita. Ma la Regione Emilia, con lo stesso provvedimento, chiede anche allo Stato centrale di intervenire. Perché non si può soltanto pretendere il beneficio economico di un'attività produttiva, senza poi intervenire quando si presenta l'esigenza di razionalizzarne l'esercizio. Né tanto meno, si può gridare allo scandalo o allo sfacelo quando bisogna fare i conti con problemi e conseguenze gravi di queste attività. Visto che il gioco pubblico non è capitato, ma è stato pensato, voluto e “attuato” dallo Stato e, quindi, dai politici che lo rappresentano (compresa una larga parte di quelli che oggi ne condannano gli effetti). Siamo soltanto arrivati al redde rationem. E ora, probabilmente, è arrivato il momento di fare qualcosa.

 

(Post Scriptum: il tricolore sbiadito che accompagna l'articolo non è un errore di visualizzazione né una svista nella pubblicazione)

 

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