Dal Riordino alla Ricostruzione, la questione territoriale diventa nazionale
Tra le anomalie italiane emerse con l'emergenza provocata dal coronavirus c'è quella della Questione territoriale che non riguarda solo i giochi: un'occasione per il riordino.
Se c'è una cosa che emersa chiaramente durante queste lunghissime settimane di emergenza provocata dalla pandemia Covid-19 è il conflitto tra Stato e Regioni e quella sottile (e neanche troppo) linea che divide il principio di sussidiarietà dall'indipendentismo. Soprattutto per quanto riguarda la gestione della salute, dove gli Enti hanno una sostanziale autonomia. Creando – molto spesso – diversi grattacapi al governo centrale, che nel disciplinare su tale materia finisce col ritrovarsi in difficoltà, dovendo passare per una concertazione che a volte risulta difficile, soprattutto quando c'è differenza di appartenenenza politica (e, quindi, di pensiero) tra la maggioranza che guida il paese e il governo di una determinata regione. Un fenomeno, questo, che ben conoscono gli addetti ai lavori del gioco pubblico e che avevamo battezzato, su queste pagine, come “Questione territoriale”. Un qualcosa che esiste ormai dal 2011, da quando cioè la provincia autonoma di Bolzano fece da apripista nel contrastare il ruolo dell'esecutivo nella regolamentazione del gioco. Una materia che, seppure indirettamente, ha a che fare proprio con la salute, dove gli enti locali possono dire la loro.
I PRINCIPI - Sul fatto che sia giusto o sbagliato (nel senso di utile o meno per il paese) adottare questo tipo di gestione della salute, si è detto e scritto molto in questi anni e non sta certo a noi esprimerci rispetto a dei principi o valori costituzionali. Anche su quelli figli di riforme più recenti di alcuni articoli della Carta. Ciò che evidente, tuttavia, e sotto gli occhi di tutti, è che una situazione di questo tipo provoca notevoli difficoltà operative e complicazioni che, nel continuo marasma politico in cui si trova da anni il nostro paese - alla ricerca continua di una maggioranza di governo che possa apparire stabile - finiscono col provocare una serie di conflitti. Dando luogo anche a uno scarico di responsabilità, quando si tratta di gestire situazioni critiche. Come sta accadendo in questi giorni, con il paese alle prese con una pandemia globale, che ha provocato un sovraccarico del sistema sanitario nazionale e locale di fronte al quale, alcune regioni, hanno reagito come potevano (o come sapevano). Sbagliando, in qualche caso, e commettendo degli errori che potrebbero risultare anche gravi, come ora dovrà dimostrare la magistratura. Non solo. Nell'eterno conflitto tra Stato e Regioni, a uscirne confusi sono anche e soprattutto i cittadini. Come stiamo osservando in queste ore con gli italiani che si chiedono se le ordinanze locali emesse per il contenimento del virus valgono ancora, oppure se adesso prevalgono le limitazioni decise dal Governo per l’emergenza. La sera del 3 aprile, in effetti, si era parlato di mantenere per altri dieci giorni i provvedimenti più restrittivi già adottati dalle Regioni. Anche se appena il 25 marzo scorso, il governo aveva parlato di uniformità e di coordinamento, quando era stato emanato il Dl 19/2020 che disciplinava le decisioni e cambiato le sanzioni.
Come scrive in un articolo dedicato IlSole24ore, con il dilagare dei contagi che ha mandato in crisi la rete ospedaliera - che negli ultimi vent’anni ha subìto chiusure e tagli di personale e ora non ha sufficienti posti (soprattutto in terapia intensiva) – è esplosa una crisi nella crisi. Sì, perché la materia rientra fra le competenze delle Regioni, così i governatori hanno capito che avrebbero rischiato batoste elettorali future e forse anche avvisi di garanzia da qualche Procura. Da qui la frenata di molte autorità locali, che si sono fatte molto più prudenti. Addirittura, più prudenti del Governo. E hanno sfruttato il potere di emettere ordinanze urgenti per tutelare igiene e sanità pubblica in caso di necessità (legge 833/1978, articolo 32, comma 3). Ecco perché in molti casi abbiamo divieti locali più restrittivi di quelli nazionali ed è difficile stare dietro alla loro evoluzione.
LA SITUAZIONE NEL GIOCO - Proprio come avvenuto nella regolamentazione del gioco pubblico: dove, l'eccesso di rigore di alcuni enti locali ha iniziato a provocare problemi non banali alla comunità locale, sia nella gestione dell'ordine pubblico ma anche sul tessuto occupazionale e quindi sociale, provocando la crisi di molte aziende, del gioco o del suo indotto, quindi nella rete dei pubblici esercizi. Portando qualche amministrazione a fare marcia indietro o comunque ad ammorbidire le proprie posizioni. Rendendosi spesso conto che quell'eccesso di rigore applicato al gioco, avrebbe potuto spalancare una crisi economica locale della quale farebbero tutti volentieri a meno. Ma al di là di questi aspetti specifici, cioè che emerge guardando il tema del gioco come quello dell'epidemia, è che il risultato di questa gestione parziale dello Stato è il rischio di una paralisi decisionale. In una situazione del genere, infatti, diventa difficile anche soltanto riuscire a prendere decisioni. Si guardi all'emergenza da coronavirus, dove il Governo ha imposto la maggior parte dei divieti con una serie di decreti del presidente del Consiglio dei ministri (i famigerati Dpcm): un tipo di provvedimento previsto già dal primo decreto legge sull’emergenza coronavirus (il Dl 6/2020, del 23 febbraio) che richiede di sentire anche le Regioni. Se i governatori non sono d’accordo, si rischia di far trascorrere in discussioni tempo prezioso, nonostante si stia parlando di provvedimenti urgenti. Questo spiega, per esempio, il motivo per cui il divieto di uscire dal territorio del Comune in cui ci si trova è stato imposto per la prima volta il 22 marzo da un’ordinanza del ministro della Salute. Un atto che non richiede di sentire le Regioni ed è vincolante fino a che non viene superato da un Dpcm o da una norma di rango alcora superiore (legge o decreto legge). Solo dopo è stato possibile emanare un Dpcm, entrato in vigore solo il giorno successivo che, oltre a confermare questo divieto di spostamento, ha disciplinato l’elenco delle attività che potevano restare aperte. Altra materia particolarmente spinosa, visto che il 21 marzo il Piemonte e la Lombardia avevano emanato proprie ordinanze che chiudevano, per esempio, anche gli studi professionali, non toccati invece dalle decisioni del Governo. Stesso discorso per quanto riguarda le ordinanze locali che vietavano espressamente di uscire di casa anche per fare jogging nelle vicinanze, come invece consentivano le norme nazionali e le interpretazioni che ne dava il ministero dell’Interno.